Intelligenza artificiale e senso della vita
Il pensiero transumanista
Il mondo contemporaneo è attraversato da una insidiosa corrente culturale: il transumanesimo.
In termini filosofici, i transumanisti pensano che l’essere umano esista solo in quanto individuo singolo (e in quanto tale perfettamente isolabile dagli altri), la cui singolarità va potenziata con l’integrazione corporea di macchine.
In effetti, un essere umano da solo è ben poca cosa: fragile su un piano organico, ansioso sul piano esistenziale, animato da bisogni che non sa soddisfare. Cosa resta a chi crede di essere fondamentalmente solo e inerme se non aggiungere strumenti artificiali alla propria solitudine? Ciascuno di noi lo fa già con un computer o un cellulare, un tempo lo si faceva col telefono e il televisore… In questa linea, oggi i transumanisti prevedono che il singolo essere umano debba essere completato dall’intelligenza artificiale e che questa si svilupperà tanto da prendere il posto dell’intelligenza umana, considerata meno efficiente. Nelle loro valutazioni, l’intelligenza artificiale è molto più veloce e batte qualunque essere umano nei giochi di memoria e di calcolo. Quindi perché non affidare tutto (anche le transazioni giuridiche o finanziarie) a lei?
Il transumanesimo è stato definito da Anders Sandberg con queste parole «Il transumanesimo è la filosofia che afferma che noi possiamo e dobbiamo svilupparci a livelli, fisicamente, mentalmente e socialmente superiori, utilizzando metodi razionali». Superiori a ciò che siamo oggi, cioè animali sprovveduti e soli. Da Robin Hanson è stato definito in modo ancora più perentorio: «il transumanesimo è l’idea secondo cui le nuove tecnologie probabilmente cambieranno il mondo nel prossimo secolo o due a tal punto che i nostri discendenti non saranno più per molti aspetti “umani”».
Dal mio punto di vista, il transumanesimo rappresenta l’estremo punto di arrivo dell’”individualismo libertario”, un pensiero sociale che vede l’uomo come individuo isolato (quindi in apparenza “libero”) da qualunque appartenenza. Rifiutando di percepire l’altro essere umano, il proprio simile, come il potenziamento naturale del singolo uomo, il transumanesimo sogna macchine sempre più complesse come protesi e supporti dell’impotenza individuale. L’uomo solo è debole: quale migliore potenziamento per lui che regalargli organi di silicio e acciaio e una mente dedita al solo calcolo? E poiché l’uomo solo è disperato (anche se lavorando come un ossesso guadagna qualche soldo in più), quale maggior sollievo per lui che cessare di pensare al senso della vita e consegnarsi al determinismo degli algoritmi?
Questo pensiero è ormai diffuso nella prassi ordinaria: ho citato cellulari e computer; potrei citare anche videogiochi e cybersex. Ai suoi livelli di vertice, si esprime nella ricerca tecnologica avanzata, per esempio nei progetti Metaverso e Realtà Aumentata. Le grandi aziende che lavorano a questo “sogno” (o incubo, dipende dai punti di vista) ricevono decine di miliardi di finanziamenti da parte di chi ritiene che il mondo debba evolvere in questa direzione. Il sogno dei transumanisti è la creazione di una doppia umanità, divisa al suo interno: da un lato una piccola élite di governanti e produttori semidei in grado di predeterminare gli eventi e di vivere un secolo e oltre; dall’altro, una massa di schiavi-consumatori isolati fra di loro, privi di appartenenza e di comunità di riferimento, immersi nella realtà virtuale per tutto il giorno e con microchip inseriti sottopelle per collegare i conti bancari ai consumi personali.
Più il mondo contemporaneo diventa complesso, sovraffollato, con le riserve naturali agli sgoccioli, più questo esito sembra vicino.
L’errore dell’individualismo
Il progetto transumanista sembra seguire una logica razionale inconfutabile. D’altra parte – è il mio punto di vista –, esso si appoggia su un principio scientifico sbagliato: la singolarità assoluta dell’individuo umano.
Come affermano molti filosofi della scienza, da Thomas Kuhn, a Gaston Bachelard e Serge Moscovici, ogni scienza poggia su una serie di presupposti ideologici: il presupposto centrale, non indagato, del transumanesimo è appunto questo: che l’essere umano naturale sia un individuo singolo e isolabile dagli altri. Ovviamente il transumanesimo è suffragato da quelle scienze che partono dallo stesso pregiudizio ideologico, ossia che la specie umana sia una somma di individualità distinte. Definisco queste scienze come “scienze individualiste”, o per meglio dire correnti scientifiche individualiste che hanno sequestrato il dibattito scientifico contemporaneo. Come vedremo, questa definizione vale senz’altro per l’economia, ma vale anche per alcune correnti della neurobiologia e della stessa psicologia. Le scienze individualiste deducono la singolarità dell’individuo umano dal fenomeno psichico della “coscienza di sé”, che sembra essere appunto un prodotto spontaneo dell’Io. Esse affermano che dal momento che possiamo essere coscienti solo in modo soggettivo la nostra essenza individuale è solitaria, cioè isolata dagli altri.
Dal mio punto di vista, che è naturalistico e umanistico, è vero che possiamo isolarci dagli altri, questo però non vuol dire che la nostra essenza naturale sia singolare. Le prove a carico di questa mia argomentazione sono di una assoluta semplicità. Se fosse vero la tesi che l’uomo naturale è un individuo isolabile dagli altri, dovremmo dedurre da essa due corollari fondamentali, validi per ogni essere umano: da un lato la sua “solitudine ontologica”: egli nascerebbe, crescerebbe e morirebbe da solo; dall’altro il suo “egocentrismo morale”: egli vivrebbe in funzione del suo mero interesse egoistico. Ebbene, per convalidare o confutare la tesi dell’uomo isolato occorre valutare quali sono gli effetti radicali della solitudine ontologica e dell’egocentrismo morale e se questi effetti sono compatibili con la prospettiva evoluzionistica.
Mi limito a riferire due osservazioni scientifiche inconfutabili, di alcuni decenni fa. Gli esperimenti di Harlow con le scimmie, nei quali un cucciolo di scimmia doveva scegliere fra due manufatti, una “madre metallica con biberon” e una “madre col pelo caldo”, dimostrano che la piccola scimmia preferisce il calore del contatto corporeo al mero nutrimento meccanico. Allo stesso modo, grazie alle osservazioni empiriche di Spitz sui neonati ospedalizzati privati, in modo non intenzionale, del contatto fisico con un essere umano accuditivo dimostrarono che questi neonati sviluppavano sindromi di abbandono, gravi patologie mentali, nonché abulia e inedia fino a morire. Dunque, la solitudine ontologica, necessaria perché si sviluppi un egocentrismo morale assoluto, non coincide con gli interessi evoluzionistici né dei primati né della nostra della specie, perché, ove si realizzi, causa gravi danni sia psichici che fisici. Il concetto di solitudine ontologica, ovvero di individualismo biologico, è dunque sbagliato in radice.
L’errore del pensiero individualista (quindi anche del progetto transumanista) nasce da un presupposto ingenuo: che la coscienza di sé appartenga agli individui e dimostri la loro essenza solitaria. È uno sbaglio. Pensiamo a una lingua. In forza di cosa esiste una lingua? In forza del fatto che esistono i parlanti. Nessun cervello lasciato a se stesso, isolato dagli altri, svilupperebbe una lingua in modo spontaneo. Lo stesso accade con la coscienza. La sviluppiamo grazie al fatto che ci confrontiamo sin da neonati con l’altro, l’altro ci fornisce e determina la percezione di noi stessi che, collegata alla propriocezione, ci dà il senso di esistere.
Sappiamo dall’antropologia che miti e religioni hanno abitato la mente umana per decine di migliaia di anni: erano prodotti della coscienza collettiva e davano ai gruppi e ai popoli e agli stessi individui singoli i motivi e il significato dell’esistenza. Sappiamo dalla linguistica che le lingue sono prodotti collettivi, che forniscono ogni parlante di significati e valori, compreso il proprio posto nel mondo e il valore che si ha per gli altri.
Il conformismo gregario
Bisogna risalire agli analisti del comportamento gregario per afferrare il fenomeno sia dell’individualismo che del transumanesimo. Eric Fromm ha dedicato alle folle solitarie composte di individui isolati – i cosiddetti “normali” – molte delle sue riflessioni. In “Psicoanalisi della società contemporanea” (1955), scrive: «Se una persona non riesce a raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungibili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata. L’individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compensato dal senso di sicurezza datogli dall’adattamento al resto dell’umanità, sempre però com’egli la vede. In effetti può avvenire che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultura, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di successo».
La deficienza socialmente strutturata di cui parla Fromm è una condizione di pseudo-normalità, vale a dire di iposviluppo convalidata come “normale” dall’intera società: «Oggi ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che non hanno mai avuto un’esperienza veramente propria, che conoscono se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata genuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di un’autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficienza senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio contro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della deficienza che questa stessa cultura ha provocato».
Sono asserzioni chiare e radicali, che, a distanza di settant’anni non hanno perso vigore né attualità. Oggi le persone che credono ciecamente nell’individualismo (ritenendo che la forza di vivere debba essere personale ed intrinseca e che qualora non l’abbiano non valga la pena vivere) rappresentano la maggioranza della popolazione, più spaventata di allora delle problematiche esistenziali, più incline alla cura ossessiva del corpo, della salute, dell’immagine, più angosciata dell’inesorabile fine della parabola biologica, più protesa verso la competizione, l’invidia, il consumismo, la distrazione di massa.
Fromm individuava nell’organizzazione sociale e nelle sue ideologie la causa di questo stato di cose: la visione del mondo dominante non solo non fornisce agli individui adeguate opportunità di sviluppo, ma indica loro la via della solitudine gregaria come unica soluzione al male di vivere. Ingannato da una cultura che gli dà l’impressione di essere potente e padrone di sé, l’uomo contemporaneo utilizza sempre più massicciamente protesi tecnologiche per porre rimedio alle proprie deficienze strutturali, vale a dire alla condizione di iposviluppo delle sue potenzialità naturali.
Il pensiero naturalista
Alla luce del mio modello filosofico, che è il naturalismo, esistono vincoli che precedono l’individuo, vincoli di natura evoluzionistica, quindi biologica, neurobiologica e psicologica. Al contrario del naturalismo, il transumanesimo commette lo stesso errore dell’individualismo liberale. L’errore di fondo dell’individualismo transumanista è eclatante, ed è compiuto anche da scienziati di fama, perché dipende da una “visione del mondo” (uno degli elementi più inconsci e quindi più insidiosi della nostra mente).
Molti neurobiologi di fama insistono che la coscienza è generata dal cervello isolato dagli altri cervelli. Questi neurobiologi hanno la convinzione che la coscienza sia formata, auto-generata, da circuiti rientranti del tessuto nervoso. Secondo tale concezione, ogni cervello isolato dagli altri crescendo genera la “sua” coscienza. Insomma, l’intera mente umana è pre-costituita in nuce nel singolo cervello, quindi, in sostanza, ognuno è in grado di “costruirsi” da sé. L’analogia col computer, che è un insieme di pezzi che risponde a un progetto precostituito, ci è stata imposta per decenni. Secondo questo presupposto siamo individualità separate l’una dall’altra.
Al contrario, secondo il mio modello di pensiero, che è naturalista, l’individuo umano e quindi anche l’autocoscienza soggettiva esistono solo in quanto effetto del sistema biologico e del campo sociale. La prima grande differenza fra A. I. (Artificial Intelligence) e H. I. (Human Intelligence) è l’autocoscienza soggettiva. Non ho ancora incontrato un computer autocosciente. Un computer sarà autocosciente quando avrà il senso di sé attraverso la comunicazione empatica con gli altri esseri senzienti. A quel punto però sarebbe un essere umano. Lo vediamo con i cani: i più umanizzati fra gli animali. I cani domestici hanno una coscienza embrionale di sé e dell’altro, quindi dispongono di una certa empatia. Sono “quasi” umani: ma ciò dipende dalle decine di milioni di anni di esistenza come animali di branco, cioè socievoli e cooperativi, e dai 20mila anni di vita con l’essere umano. Per i computer, che non sono costituiti di cellule sensibili, né tantomeno vivono una esistenza socievole, empatica e cooperativa, c’è ancora un po’ di strada da fare.
Autocoscienza vuol dire coscienza dell’esserci e dell’essere con l’altro.
E qui salta all’occhio la seconda fondamentale differenza fra essere umano e macchina.
La caratteristica principale dell’autocoscienza è dare significato a sé e all’altro, quindi dare significato alla vita. Solo il “dare significato alla vita” fornisce un ente di una direzione, cioè di un “senso”. Ora non c’è dubbio che l’essere umano è quell’ente che constata la gioia e si orienta verso la felicità. A un computer solo un essere umano può dare la definizione di “gioia” e di “felicità”, che però il computer non potrà mai capire, né perseguire, perché non ha autocoscienza senziente, ossia non ha capacità di empatia, amore, gioia: può condividere informazioni, non significati. Questo concetto lo avevo già intuito e argomentato nel 2002 negli ultimi capitoli del libro “VOLERSI MALE”, dedicati appunto alla sensibilità e alla gioia.
Le scienze individualiste
Psicologia, neurobiologia e neuroetica sono oggi condizionate dall’individualismo dominante. Seguendo questa ideologia, la psicologia postula che ogni individuo ha la facoltà di costruire la sua psiche, le sue credenze, i suoi valori: è un ente distinto e assoluto rispetto alla relazione e alla comunità. Secondo la neurobiologia, ogni singolo cervello è completo da solo, contiene in se stesso il suo sviluppo futuro: quindi secerne spontaneamente coscienza e sentimenti. Secondo la neuroetica e la neuroeconomia, ogni individuo persegue i suoi interessi privati e solitari contro tutti gli altri e se eventualmente segue gli interessi altrui, lo fa solo quando questi interessi altrui massimizzano il proprio profitto personale.
Secondo quanto ho detto, queste scienze sbagliano e procederanno a tentoni finché non comprenderanno che la coscienza umana nasce come riflesso della coscienza collettiva: un bambino ha coscienza di sé nel momento in cui la madre lo “vede” e lui è pronto per “vedersi visto” da lei, e quando il suo nome pronunciato da un altro lo identifica e lui si sente identificato da quel nome. D’altra parte una madre esiste in quanto esiste una collettività che la vede, la nomina e la include. In questo senso, non esiste un Io senza una collettività, una collettività sia vivente che trapassata. Solo l’appartenenza consente una vera individuazione.
Tutto il mondo contemporaneo, guidato dall’economia politica, pensa l’opposto, che noi siamo separati gli uni dagli altri e siamo destinati a confliggere e competere per strapparci le risorse gli uni con gli altri. Siamo macchine egocentriche, destinate unicamente a procurare vantaggi per noi stessi.
Che questo l’affermi l’economia politica è comprensibile, perché è guidata da una élite spietata; che lo facciano teorie scientifiche che mirano alla conoscenza dell’uomo e al suo benessere è imbarazzante ed è una posizione che va superata.
Ho trattato in esteso questi argomenti nei libri LA SPECIE MALATA e LA LINGUA PERDUTA DELL’AMORE, ai quali rimando.