La fobia delle emozioni
L’ombra nella stanza: la paura di sentire
La prima volta che venne da me, Francesca mi mostrò un rigido sorriso di cortesia. Mi apparve più come una smorfia intagliata in una maschera di legno, che come un’espressione di calore umano. Il suo volto era immobile e il suo sguardo non cercava mai i miei occhi, era ostinatamente chiuso e volto al pavimento. Francesca sapeva che la stavo guardando con interesse e che mi sarei atteso di incontrare il suo sguardo, per scambiarci un segno di intesa; ma si impedì di farlo.
Si sedette con compostezza, stringendo le ginocchia, simile a un idolo egizio; e dopo un lungo e imbarazzato silenzio cominciò a parlare. Mentre il suo corpo era fermo in una posa dignitosa e ieratica, il tono della sua voce mi ricordò piuttosto quello tremulo di una studentessa durante un’interrogazione. Non si lasciò sfuggire nulla di eccessivo: né il piacere di essere con me, né la tristezza o la rabbia per gli eventi drammatici che andava evocando; c’era solo quel fremito di ansia che le attraversava per intero il corpo. Mentre parlava, o meglio provava a parlare, mi rendevo conto dello sforzo in cui era impegnata: ogni emozione doveva essere filtrata, vagliata, controllata. «Non so cosa provo esattamente», disse. «Dentro di me ho come un vuoto. Non solo non riesco a sentire nulla, ma nemmeno a ricordare le emozioni che hanno accompagnato gli episodi della mia vita. Dentro, al posto dei sentimenti, ho come un buco nero». E così, mentre sceglieva con cura le parole, una strana tensione si diffuse nella stanza: come se, nel momento in cui si avvicinava al cuore di una verità emotiva, qualcosa – o qualcuno: un’ombra misteriosa – le distogliesse lo sguardo.
Francesca non è sola. Migliaia di persone, apparentemente adattate, conducono vite nelle quali le emozioni sono percepite come minaccia: minaccia al proprio equilibrio, alla propria autonomia, alla propria immagine pubblica. In questo senso, la fobia delle emozioni – non solo di quelle “negative”, ma anche di quelle “positive” – si presenta non come un sintomo passeggero, ma come una vera e propria struttura psicopatologica. Una forma di paura radicata, che attraversa i codici educativi, le relazioni primarie, gli affetti, le regole del vivere sociale.
Dietro la maschera dell’autocontrollo, si cela sempre un conflitto radicale: da una parte, il bisogno di legame, di riconoscimento, di fusione con l’altro, incarnato nei sentimenti di simpatia, amore, gratitudine, compassione; dall’altra il bisogno di opporsi, di esprimere la propria individualità, anche attraverso potenti emozioni di rifiuto, come la rabbia, l’insofferenza, il disprezzo o l’odio. Entrambi questi poli – legame e separazione – sembrano diventati, in contesti carichi di pathos, scomodi, inopportuni, pericolosi, quindi infine proibiti. La persona, allora, non reprime solo un’emozione: reprime il diritto stesso di sentire.
Nel linguaggio della psicoterapia dialettica, questo conflitto può essere letto come esito di una scissione tra il Super-Io – che prescrive la norma, il dovere, l’adattamento – e l’Io antitetico, portatore della spinta all’autonomia e alla soggettività. Il Super-io è per sua natura comunitario. Di solito si integra con una matrice culturale religiosa e reprime e colpevolizza soprattutto le emozioni “negative” di rabbia e di protesta, considerate disdicevoli e pericolose. Il secondo è una funzione di tipo personale; la sua matrice antropologica qui in occidente è liberale e scredita le emozioni “positive”, quelle di interdipendenza e legame, vissute come debolezza, dipendenza, esposizione al rischio di essere invasi.
Questa visione della psiche è in parte tributaria di quanto già notavano Donald Winnicott e Erich Fromm parlando del “falso Sé” e di “normalità malata”: una struttura adattativa che si costruisce per rispondere alle aspettative ambientali, ma che finisce per disconnettere il soggetto dal proprio nucleo affettivo autentico. Nella concettualizzazione di Winnicott quando il falso Sé ha successo, si ha un’esistenza priva di significato, depauperata di emozioni e sensazioni. E qui ritorna Francesca, seduta nella stanza, con il suo sorriso controllato e il suo vuoto di emozione: viva, ma scollegata da se stessa.
Fobia delle emozioni: una questione strutturale
La fobia delle emozioni non è semplice “evitamento emotivo” o deficit nell’intelligenza affettiva. La fobia delle emozioni è un vero e proprio impianto strutturale, che prende forma a partire dall’infanzia attraverso le dinamiche educative, relazionali e culturali. In termini psicodinamici, potremmo parlare del congelamento di un conflitto tra due istanze interiori: da una parte il Super-Io, portatore della legge, della norma, della sottomissione al gruppo; dall’altra, l’Io antitetico, sede del desiderio di autonomia, opposizione, affermazione soggettiva.
Questo conflitto non è solo interno al soggetto, ma riflette un’antinomia psicosociale profonda tra appartenenza e individuazione. Il soggetto che cresce in un ambiente affettivamente ambivalente – dove il riconoscimento è condizionato all’adattamento e all’auto-repressione – si trova a dover neutralizzare – e quindi congelare – tanto le emozioni “positive” (che potrebbero portare all’inclusione affettiva al prezzo della perdita di autonomia), quanto quelle “negative” (che potrebbero minacciare il legame e attivare il rifiuto da parte dell’altro e il senso di colpa). Per essere fonte di patologia, il sistema sociale deve mostrarsi come un campo di forze e di significati in cui domina la divergenza, perché i due bisogni – di appartenenza e di individuazione – vengono significati e trasmessi come antitetici e non integrabili.
Nella visione struttural-dialettica, questo stato di scissione permanente configura un circuito psicodinamico alienato: la mente funziona come un sistema cibernetico che, nel tentativo di autoregolarsi, finisce per reprimere proprio quelle componenti emotive da cui trae energia e significato. Il risultato è un equilibrio patologico, fondato sul controllo: una sorta di omeostasi affettiva.
Come ha ben colto Bion col concetto di “attacco al legame” (1962), la mente può sviluppare una sorta di allergia alla realtà emotiva, attaccando tutto ciò che potrebbe favorire l’integrazione di pensiero ed esperienza. Non è un caso che molti pazienti arrivino in terapia riferendo sintomi di “vuoto”, “anestesia emotiva” o “confusione mentale”: la fobia delle emozioni è radicale assenza di emozione, rifiuto dell’esperienza affettiva come tale, quindi inibizione del principale fattore di organizzazione della mente.
Emozioni negative e senso di giustizia
Nel nostro immaginario culturale, le emozioni negative – rabbia, odio, disprezzo, vendetta – sono associate all’aggressività e al male. Ma questa equivalenza è appunto culturale, cioè arbitraria. È un’interpretazione gravemente denigratoria per almeno due motivi.
Primo: l’emozione ha una valenza introspettiva e serve a capire piuttosto che ad agire; quindi la volontà negativa non può esserle attribuita se non in virtù di un equivoco interpretativo (in cui le religioni cadono frequentemente), cioè che a un’emozione consegua sempre un’intenzione coerente e quindi un’azione. Questo pregiudizio invalida alla sua nascita ogni emozione negativa. Secondo: le emozioni negative, a livello umano, non sono tributarie di una generica “aggressività” animale; esse nascono dal sentimento di giustizia, che misura se noi stessi o altri che amiamo sono trattati in modo rispettoso. Si tratta di un sentimento presente sin dalla prima infanzia. In questi senso – per dirla con Ferenczi (1931) – le emozioni negative sono il sintomo della verità emotiva negata, taciuta o distorta.
Quando la possibilità di opporsi viene sistematicamente frustrata, il bisogno di individuazione, cioè di vedersi rispettati, di opporsi alla volontà altrui e di sviluppare la propria autonomia, viene alienato. La sua alienazione coincide con un senso di ingiustizia patita e genera, per effetto di ridondanza, un’intensificazione pulsionale delle emozioni negative. Dolore morale, protesta, rabbia, odio si accumulano nell’inconscio, e possono culminare in forme sintomatiche. Disturbi ossessivi (dove l’ipercontrollo serve a contenere fantasie dirompenti), depressioni inibitorie (dove il senso di colpa impedisce l’emergere del conflitto), isterie panico-fobiche (dove il corpo diventa il campo di battaglia tra desiderio e divieto) nascono da questa alienazione delle emozioni negative.
Un esempio clinico. Mauro, 26 anni, arriva in terapia dopo una diagnosi di “disturbo ossessivo-compulsivo a esordio adolescenziale”. L’ideazione ossessiva ruota attorno a immagini violente e oscene, vissute con profondo disgusto e senso di colpa. Nel lavoro terapeutico, emerge che l’infanzia di Mauro è stata dominata da un’educazione repressiva, incentrata sulla negazione della rabbia (“Come ti permetti di dirmi questo!”, “I bravi figli non denigrano i genitori”). Ogni tentativo di opposizione era deprecato e punito. Le immagini intrusive non sono altro che un effetto di ridondanza, una forma distorta e sintomatica di rivendicazione del suo diritto a esistere come soggetto autonomo e imperfetto.
Emozioni positive: la colpa di esistere
La fobia delle emozioni positive è in apparenza controintuitiva, e tuttavia non è meno devastante. Amore, gratitudine, compassione, tenerezza – sono emozioni che, per loro natura, implicano esposizione, affidamento, fusione parziale con l’altro. Se il legame è stato segnato da abusi, invadenze, ricatti affettivi o disconferme, queste emozioni possono diventare fonte di angoscia, vulnerabilità, perfino vergogna. Tanto più quando il codice morale della famiglia o persino dell’intera società stigmatizzano come vergognosa debolezza il cedere la propria sovranità personale a un altro essere umano.
In molte patologie isteriche e narcisistiche, le emozioni positive sono squalificate come segni di sottomissione e debolezza. Il soggetto costruisce allora un ideale dell’Io fondato su una mimesi sottomissiva ma in realtà su un conflitto permanente (isteria); oppure sull’isolamento emotivo, l’autonomia assoluta, l’invulnerabilità, l’insensibilità affettiva: non è una semplice negazione o significazione negativa; è anche e soprattutto scissione, espulsione e proiezione sull’altro della dimensione affettiva come tale.
Un esempio clinico. Chiara è una giovane donna di 38 anni e si presenta con una sintomatologia depressiva anedonica. Lavora come avvocata, ha successo, è stimata, ma non riesce a costruire relazioni intime durature. “Sono angosciata dall’idea di vivere da sola e di non avere figli. Eppure, ogni volta che qualcuno mi si avvicina gli trovo mille difetti e finisco per disprezzarlo; oppure semplicemente mi spengo, perdo interesse e cado in un vuoto emotivo totale” dice. In analisi, emerge un pattern educativo pseudo-autonomizzante: genitori affettuosi ma ipercompetitivi, incapaci di sostenere i suoi bisogni di dipendenza emotiva e di amore. Ogni tentativo di espressione affettiva era derubricato a “capriccio”. L’amore, per Chiara, è diventato un lusso pericoloso, e la freddezza uno scudo contro l’umiliazione.
Ma le emozioni positive non sono solo quelle sperimentate grazie alla relazione con l’altro; lo sono anche quelle relative a un più profondo coinvolgimento con se stessi: la gioia, l’orgoglio, il piacere di vivere, la felicità. Queste emozioni germogliano nello spazio dell’intimità con se stessi: il piacere di sentire la propria vitalità, la gioia di esistere, l’orgoglio per ciò che si è, il gusto del gioco fine a sé stesso, la meraviglia per un paesaggio o per il semplice fatto di respirare. Sono emozioni “autoreferenziali” solo in apparenza: in realtà, costituiscono il fondamento energetico della soggettività. Senza di esse, ogni slancio relazionale perde forza e autenticità.
Eppure, in molte famiglie, soprattutto quelle segnate da codici morali sacrificali o da lutti mai elaborati, queste emozioni vengono colpevolizzate o svalutate. Come ho osservato e documentato nel mio libro “Volersi male” (Ghezzani, 2002), nei contesti “altruistici” estremi, la gioia personale è interpretata come egoismo, indifferenza verso le sofferenze altrui, tradimento del patto familiare di dedizione e rinuncia. Nei contesti segnati dal lutto sacralizzato, il piacere di vivere può essere percepito come un’ingiustizia verso i morti, un oltraggio alla memoria di chi non c’è più. Si forma così un “Super-Io algofilico”, che legittima solo quelle emozioni compatibili con la sofferenza condivisa: malinconia, tristezza, commiserazione, senso del dovere. La gioia diventa una trasgressione; l’orgoglio, un peccato di superbia; la felicità, un lusso immorale. Nel tempo, il soggetto interiorizza questa colpa e impara a spegnere sul nascere ogni scintilla di piacere, a diffidare del proprio entusiasmo, a coprirlo con un velo di sobrietà emotiva.
In termini struttural-dialettici, l’Io antitetico – che dovrebbe presidiare il diritto alla propria esistenza e alla propria vitalità – viene colonizzato dal Super-Io, trasformandosi in un suo alleato punitivo: invece di difendere lo spazio personale, collabora a ridurlo.
Come osservava Winnicott, la capacità di essere soli in presenza dell’altro è condizione essenziale per sviluppare un senso del sé vitale e autentico. Ma se il piacere di essere soli con se stessi viene associato alla colpa, il soggetto non solo perde il contatto con il proprio nucleo affettivo, ma si abitua a cercare la propria legittimazione solo nel sacrificio e nella rinuncia, quindi in una forma particolarmente dolorosa di dipendenza morale.
Dal punto di vista neurobiologico, la repressione di queste emozioni non è priva di conseguenze. La gioia e il piacere di vivere sono legati al sistema della ricompensa, che coinvolge aree come il nucleus accumbens, la corteccia prefrontale ventromediale e il sistema dopaminergico mesolimbico. Inibire cronicamente la possibilità di attivare questo circuito non significa solo rinunciare a sensazioni piacevoli: comporta una riduzione della motivazione intrinseca, della capacità di progettare, della stessa spinta vitale. Studi longitudinali mostrano che la deprivazione di esperienze gratificanti è correlata a una maggiore vulnerabilità alla depressione e a disturbi dell’adattamento, proprio perché il cervello perde “allenamento” nell’associare il vivere all’esperienza del piacere.
Un esempio clinico. Giorgia, 29 anni, cresce in una famiglia in cui la morte della sorella maggiore, avvenuta prima della sua nascita, è rimasta un trauma mai elaborato. I genitori, soprattutto la madre, vivono in una cornice emotiva impregnata di lutto e silenziosa venerazione per l’assente. Ogni manifestazione di gioia o vitalità viene smorzata, soprattutto per la nuova figlia, ignara della disgrazia avvenuta: “Non fare la sciocca… Di cosa ti vanti? Non vedi quante cose brutte ci sono nel mondo?” o “Non è il momento di festeggiare, pensa a chi sta male”.
In terapia, Giorgia confessa di sentirsi “sbagliata”, persino un “mostro di egoismo”, quando prova felicità, come se stesse mancando di rispetto a una regola sacra. Negli anni, ha imparato a ridurre le proprie aspirazioni, a evitare momenti di piacere, a trasformare i suoi successi in “coincidenze fortunate” per non sembrare arrogante. Solo nel lavoro analitico inizia a riappropriarsi del diritto di opporsi alla legge del dolore e a sorridere senza chiedere permesso. Parallelamente, nota un miglioramento spontaneo dell’energia e della motivazione quotidiana: il cervello, come un muscolo, ricomincia ad allenarsi alla gioia.
Valori contro-affettivi
La fobia delle emozioni non si forma nel vuoto. È il prodotto di storie individuali, certo, ma anche di sistemi di valori e codici culturali che, pur proclamando l’importanza dell’affetto, finiscono per privilegiare il controllo, la misura, la rinuncia. Nella nostra società contemporanea, due matrici valoriali continuano a esercitare un’influenza sotterranea ma pervasiva, talvolta intrecciandosi fino a creare un ibrido paradossale: la matrice cristiana e quella liberale – in particolare, la sua versione neoliberista.
La prima, radicata in secoli di tradizione religiosa e tuttora attiva anche in chi si dichiara ateo o agnostico, promuove come ideali supremi l’Imitatio Christi, le vite dei santi, il sacrificio altruistico. In questa visione, la virtù si misura con la capacità di rinunciare a sé stessi, di sopportare la sofferenza, di sublimare i propri desideri in favore dell’altro – della famiglia, dei bisognosi, di Dio. L’affetto è ben accetto solo se si traduce in compassione, solerzia, senso del dovere; è invece sospetto, se è orientato al piacere personale, alla gioia di vivere, alla soddisfazione autonoma. Ne deriva una colpevolizzazione implicita sia delle emozioni negative di rivolta, che di quelle positive di piacere e di gioia, che esaltano l’esistenza dell’Io e del mondo come valori in se stessi, non legati fra loro da un patto di sacrificio.
Il secondo sistema, di matrice liberale e nella sua forma estrema neoliberista, ha rovesciato la scala dei valori: l’autonomia individuale, l’efficienza, la competitività, l’autoaffermazione, la mancanza di scrupoli diventano criteri assoluti. In questa logica, le emozioni che non servono a migliorare la performance – che siano di cura, di gioco, di empatia profonda – sono viste come zavorre. Si costruisce così un ethos dell’“homo economicus” che deve ottimizzare tempo, energia e relazioni, riducendo lo spazio che in natura è destinato alla gratuità e all’intensità sentimentale. L’affetto, se non funzionale a un obiettivo produttivo, è considerato superfluo.
Il risultato di questa doppia pressione è un paradosso: nella vita pubblica, si esibiscono emozioni calibrate, “vendibili” – la compassione da post social, l’entusiasmo motivazionale da conferenza aziendale – mentre nella vita privata si impara a trattenere, moderare, negare la complessità emotiva autentica. Così, la cultura della rinuncia e quella della performance, pur in apparenza opposte, convergono nella stessa direzione: un impoverimento del diritto a sentire.
Una breve storia clinica vale a illustrare questo paradosso.
Alessandro ha 53 anni ed è ormai un manager di successo. Cresciuto in una famiglia cattolica praticante, ha interiorizzato presto i valori del sacrificio e dell’altruismo: il padre, che è stato la sua figura di riferimento, ripeteva che “questo non l’ho fatto per me; l’ho fatto perché era giusto. Non mi sono mai piaciute le persone che brigano per ottenere favori personali”. Da adulto, Alessandro ha sposato anche il credo dell’efficienza e della competizione, tipico dell’ambiente aziendale internazionale in cui lavora. In apparenza, queste due matrici – la cristiana e la neoliberista – sembrano opposte; in realtà, nella sua esperienza si sommano. Ogni volta che sta per avere un periodo di ferie, Alessandro entra in ansia e ha paura che qualcuno gli possa “soffiare il posto”. In vacanza non si gode mai nulla: è sempre preoccupato, nervoso, non sa nemmeno lui perché. Proprio quando è più libero di godere un periodo di serenità, va incontro a disturbi psicosomatici e crisi ipocondriache che lo atterriscono e lo impegnano per settimane. E quando finalmente prova una gioia personale – per un gesto di amore da parte della moglie, per l’affetto degli amici, per la bellezza di un paesaggio o per un momento di intimità coi figli – si sente futile, vuoto: si sente in colpa: “Che sto facendo? Sto perdendo tempo! Dovrei usare questo tempo per cose più serie: mantenere la mia posizione, risparmiare denaro, tenere la mia mente allenata…”.
In terapia, Alessandro si rende conto di non avere mai vissuto un’emozione senza immediatamente valutarla in termini di utilità (e per lui utilità equivale a moralità). La sua vita emotiva è diventata un sistema di filtri: quello del Super-Io sacrificale e quello del Super-Io performativo. Entrambi convergono nel negargli la gratuità della vita e la felicità di stare al mondo.
Solo la relazione psicoterapeutica lo aiuta, lentamente, a smontare i valori assorbiti dalla famiglia e a legittimare momenti di “inutile” felicità, finalizzati a obiettivi di pura sussistenza, recuperando il contatto con la propria vitalità senza sentirsi per questo in colpa.
Ipercontrollo e catastrofe: psicopatologie giovanili
Molte psicosi giovanili, soprattutto quelle con sintomi inibitori o persecutori, derivano da un controllo eccessivo sulle emozioni negative. In alcune traiettorie di sviluppo, la fobia delle emozioni negative – rabbia, odio, invidia, disprezzo, vendicatività – non è solo un tratto caratteriale, ma un vero e proprio presidio difensivo che si estende su tutta la vita affettiva. L’ipercontrollo che ne deriva nasce, in questi casi, come strategia di adattamento: contenere e controllare le emozioni “pericolose” serve a evitare il rifiuto, la condanna morale, o la rottura di legami affettivi cruciali. Ma l’apparente equilibrio che ne deriva è fragile.
Nel periodo giovanile, quando il bisogno di individuazione preme con particolare intensità, il sistema di difese può andare incontro a un collasso e a un salto di qualità. Il controllo ossessivo, pensato per garantire sicurezza, cede sotto la pressione di spinte vitali e conflittuali, opposte ai valori sociali interiorizzati. L’odio represso, ridonda e può riaffiorare in forme estreme: allora riappare non come fantasia impulsiva, ma come costruzione delirante. Il delirio persecutorio, tipico di alcune psicosi giovanili, diventa allora una sorta di autocontrollo esterno simbolico: “Se sono pericoloso, che qualcuno mi controlli”.
Altre volte, si produce un ribaltamento drammatico. L’Io antitetico – fin lì relegato ai margini – si impossessa del campo psichico e si manifesta in comportamenti antisociali gravi. Non è più il timore di fare del male a regolare la condotta, ma il rovesciamento completo di quella norma: il gusto trasgressivo o la necessità di infrangerla.
Il rischio, in entrambi i casi, è che la fobia delle emozioni – nata per proteggere il soggetto dalla condanna morale – diventi l’innesco di una catastrofe psichica. Quando la funzione autoregolativa delle emozioni collassa, l’individuo precipita in un conflitto interno senza mediazioni, dove le voci interiori – ora accusatorie, ora istigatrici – si contendono il comando: «Fallo!» «Non puoi farlo, delinquente!».
Un esempio di psicosi giovanile con delirio persecutorio. Matteo, 19 anni, bambino altamente sensibile è figlio di una famiglia moralmente rigorosa e ha sempre corrisposto alle aspettative genitoriali con una condotta impeccabile. Alle scuole superiori, evitava ogni discussione, minimizzava i conflitti, e reprimeva ogni emozione di rabbia per timore di “non essere il bravo figlio che i genitori si attendevano, né il bravo studente caro ai professori”. Consapevole di non saper rispondere alle provazioni con la violenza, ha preferito tacere e nascondere i suoi impulsi. Negli ultimi mesi dell’ultimo anno scolastico, deriso dai compagni perché “cocco” di una professoressa, comincia a manifestare un improvviso ritiro sociale, uno strano silenzio (mutismo selettivo) e una tormentosa insonnia. I genitori si preoccupano e gli chiedono cosa abbia. Lui risponde di sentirsi “sorvegliato” da persone sconosciute che lo insultano, gli danno del delinquente e poi gli impongono di non fare “cose cattive”.
In terapia emergono ricordi infantili di umiliazioni paterne quando esprimeva frustrazione con lamenti e pianto, e dissenso nei confronti del padre. per la sua severità, cui non bastavano mai le prove di rettitudine che Matteo gli dava. Il delirio persecutorio – un misto di umilianti autoaccuse e di esortazioni ad agire bene – appare come l’estremo baluardo difensivo: una protezione simbolica che lo tiene lontano dall’atto aggressivo temuto, ma che, con la psicosi, lo intrappola in una prigione mentale.
Un esempio di viraggio antisociale. Luca, 23 anni, proviene da una storia segnata da inibizione affettiva e colpevolizzazione costante delle emozioni negative. Da adolescente sviluppa un forte perfezionismo, volto a dimostrare la sua “innocenza” morale. A 20 anni, dopo un lungo innamoramento non corrisposto verso una ragazza che, rifiutandolo, lo prende in giro per le sue “ambizioni sociali”, passione infelice, segnata da rifiuto e umiliazione, inizia a vivere un ribaltamento radicale: «Non voglio più essere il bravo ragazzo che sono sempre stato, voglio che si sappia che non ho paura di niente”. Abbandona gli studi, si tatua il corpo con simboli di violenza e dopo essere stato per alcuni mesi un consumatore di droghe stimolanti, entra nell’ambiente dello spaccio e comincia a vantarsi di piccoli atti di violenza e trasgressione. Una serie di terrificanti attacchi di panico lo inducono a chiudersi in casa e a chiedere aiuto.
In analisi, risulta subito chiaro che il suo “passaggio all’atto” non è il frutto di una pulsione antisociale primaria, tanto più che Luca è sempre stato un ragazzo ben poco aggressivo, quanto piuttosto l’effetto di un collasso difensivo. L’Io antitetico, represso per anni, si è afferma indossando l’abito del delinquente antisociale, come unica via per liberarsi da un’identità da vittima passiva.
Questo doppio esito – la psicosi persecutoria e il viraggio antisociale – mostra come il problema non sia la forza delle emozioni negative in sé, ma la loro significazione negativa, quindi la loro esclusione sistematica dal campo della coscienza e della legittimità affettiva. Senza uno spazio simbolico per riconoscerlo e trasformarlo, il bisogno di opposizione ridonda, e alla fine trova sbocchi estremi, che possono passare in un caso dal delirio, nell’altro trovano la via della violazione delle norme sociali.
Verso l’integrazione
La cura della fobia delle emozioni non consiste nella semplice “espressione delle emozioni”, come suggerisce certa psicologia ingenua. Si tratta piuttosto di integrare le emozioni nel campo della coscienza simbolica, riconoscendole come parti legittime e vitali del proprio Sé. L’espressione delle emozioni deve allora essere subordinata alla loro ri-significazione entro un nuovo sistema di valori, diverso e innovativo rispetto al precedente: rispettoso delle esigenze vitali dell’individuo.
La psicoterapia struttural-dialettica si pone come una bussola preziosa. Lavorando sull’identificazione delle sub-personalità (Super-Io e Io antitetico) e sullo smontaggio del circuito psicodinamico alienato, permette di offrire un nuovo significato e una nuova direzione alle emozioni negate. Solo allora la rabbia può trasformarsi in una concreta ricerca di dignità, la tenerezza può schiudere la porta al legame amoroso e la paura può tradursi in una sana e paziente costruzione di garanzie.
In una delle nostre ultime sedute, Francesca mi raccontò un sogno. Era in un giardino di una città sconosciuta eppure familiare e lì vedeva una bambina, di spalle, di fronte a una fontana. Nella vasca della fontana c’erano pesci immobili e silenziosi, sembravano di legno o di pietra. Nell’avvicinarsi, Francesca si accorgeva che la bambina era triste e silenziosa come quei pesci. Allora si inginocchiò e le raccolse un pupazzo di peluche che le era caduto in terra. Era un orsetto bruno. “Nel sogno ero sicura che quella bambina fossi io stessa,” mi disse, dissimulando la commozione. “E che quell’orsacchiotto fosse la mia natura animale negata. Per la prima volta non mi sono voltata dall’altra parte.” Nel prenderne atto era arrabbiata, ma allo stesso tempo felice.
Bibliografia dell’autore
Ghezzani N., Volersi male, FrancoAngeli, Milano, 2002.
Ghezzani N., La logica dell’ansia, FrancoAngeli, Milano, 2008.
Ghezzani N., La mente distopica, FrancoAngeli, Milano, 2021.
Ghezzani N., Ipocondria, FrancoAngeli, Milano, 2025.
Bibliografia di riferimento
Anepeta L., Manuale di psicopatologia struttural-dialettica, Nilalienum, 2018.
Bion W.R. (1959), Attacks on linking, International Journal of Psycho-Analysis, vol. 40. Ristampato in Second Thoughts (1967).
Bion W.R., (1962). Apprendere dall’esperienza. Raffaello Cortina.
Ferenczi S., (1931). Diari clinici. Raffaello Cortina.
Jung C.G., (1957). La dinamica dell’inconscio. In Opere, Bollati Boringhieri.
Winnicott D.W., (1965). Il bambino, la famiglia e il mondo esterno. Armando.

