Sul concetto di trauma in psicoterapia
Indice:
1 – Il concetto di trauma
2 – Trauma fisico e trauma mentale: un’analogia fallace
3 – L’illusione dell’oggettività: critica alla psicologia traumatocentrica
4 – Il trauma come danno relazionale e come esito della significazione
5 – Dipendenza, rischio iatrogeno ed etica della psicoterapia
6 – Trauma, insiemi e giochi di prestigio
7 – Trauma, senso e conoscenza
8 – Trauma e struttura sociale: il contributo della psicologia dialettica
BIBLIOGRAFIA
APPENDICE
Il concetto di trauma
Il concetto di trauma nasce in campo medico, dove ha un significato chiaro ed evidente.
Poiché sappiamo cos’è l’organismo e come funziona (fisiologia), sappiamo anche cosa è un “trauma fisico” (cioè organico): il trauma è una lesione che danneggia la funzionalità di un organo, sregolandola, diminuendola, talvolta accompagnandola col dolore.
Applicato alla psicologia, il concetto di trauma non è altrettanto evidente. Così come il concetto di trauma fisico presuppone l’adeguata conoscenza di cosa sia l’organismo e di come esso funzioni; allo stesso modo il concetto di “trauma mentale” dovrebbe presupporre la stessa adeguata conoscenza di cosa sia la mente e di come funzioni, quindi in che senso e in che modo possa essere traumatizzata.
Finché parliamo di cervello, lo trattiamo come un qualunque altro organo: infatti, il concetto di “trauma cerebrale” presuppone un’adeguata conoscenza di cosa sia il cervello, che è un organo come un altro, e in che modo una lesione possa danneggiare le funzionalità di un’area o di un’altra di tale organo. Ma quando parliamo di mente non stiamo parlando affatto di un organo come il cervello, bensì di una funzione emergente dell’intero organismo nella sua interazione con altri organismi umani e col sistema nel suo complesso (società e cultura: ossia interazioni, linguaggi, sistemi di valori). Quindi affermare che esista un trauma mentale non è altrettanto semplice che dire che esiste un trauma cerebrale.
Il più delle volte, nella psicologia contemporanea, si dà per scontato che qualunque esperienza che lo psicologo o il paziente definiscano come negativa o dolorosa sia per ciò stesso traumatica. Non si valutano almeno un paio di argomenti che militano contro questa concezione.
Primo: la coscienza, soprattutto infantile, presenta un filtro che elimina gran parte delle esperienze la cui stimolazione è avvertita come eccessiva e destabilizzante. In questo senso, parlare di un “trauma infantile inconscio” che solo il terapeuta è in grado di conoscere (per esempio attraverso il controtransfert) è arbitrario: occorrerebbe inferirlo da prove indirette, come test e schemi comportamentali iterati, che semmai lo riconoscerebbero come “dissociato” o “rimosso”, non come “mai venuto alla coscienza”.
Secondo argomento: ogni trauma presuppone un ricordo che – sia pure in forma di traccia semiotica – ha avuto accesso alla coscienza e poi ne è stato dissociato o rimosso. Dunque, ogni trauma presuppone un significato che ad esso è stato conferito, perché ogni ente oggettivo viene recepito dalla mente nella forma di un significato. E come sappiamo dalle scienze sociali, ogni significato varia da persona a persona e da cultura a cultura.
Nella terapia del trauma si bypassa completamente il livello del sistema sociale e personale dei significati; quindi si bypassa un dato a mio avviso fondamentale per la pratica della psicoterapia: che un significato persecutorio (p. es. un giudizio negativo) interiorizzato e autoinflitto può costituire un vissuto traumatico di fondo, costante e devastante. Questa è la correzione che apporto alla teoria del trauma psichico presente in molta psicoterapia contemporanea: io considero trauma tutto ciò che nell’interazione intrapsichica fra parti distinte della mente comporta una perturbazione costante al pieno dispiegamento della personalità complessiva.
In questo senso, il ricordo di un abuso sessuale è traumatico non solo e non tanto per il fatto in sé, ma perché, essendo ricordato, esso acquisisce significati: la persecutorietà dell’abusante; la paura e l’umiliazione subite; l’arbitrarietà delle sicurezze affettive e morali; la perdita di fiducia nella relazione umana. D’altra parte, non sempre un episodio che il terapeuta può ritenere traumatico, lo è davvero: due soggetti picchiati allo stesso modo dallo stesso genitore possono avere ricordi differenti degli stessi episodi: ciò vuol dire che è intervenuta una diversa significazione dell’evento.
Allo stesso tempo, due genitori benevoli, ma pervasi da un codice valoriale improntato al dovere e al perfezionismo morale depositano nel figlio un’esigenza performativa che può perseguitarlo per la vita. In questo caso, è evidente che più che i genitori in prima battura, quindi la relazione, è traumatica l’interiorizzazione del codice e che trattare nel paziente la distanza dei genitori impegnati nel lavoro quand’era bambino trascura il fattore fondamentale: che quel paziente il persecutore se lo porta nella testa in formato tascabile in forma di Super-io vessatorio. Egualmente una madre sacrificale, che non chiede nulla al suo bambino ma gli offre ogni giorno la visione della propria sofferenza allorché accudisce i parenti malati, carta nel bambino la sua naturale propensione alla gioia. In questi ultimi due casi si può invocare la distanza, quindi la negligenza, come fattore traumatico, ma è chiaro che l’apparente esperienza di “vuoto” da parte del figlio si rivela essere un “pieno” non appena si analizzano i significati dei vissuti, quindi i valori interiorizzati.
Negare l’importanza dei significati come reticolo infrastrutturale della mente collettiva e personale consente oggi agli psicoterapeuti di non occuparsi delle variabili di natura socio-culturale che determinano l’organizzazione morale del soggetto, che stanno alla base dei conflitti intrapsichici e possono appunto essere rese consapevoli.
Inoltre, il concetto di memoria traumatica implicita (cioè inconscia e non raggiungibile dal soggetto) fa sì che l’azione clinica bypassi la presa di coscienza da parte del paziente, svalutando il suo bisogno di sapere e la crescita dell’autocoscienza. Il terapeuta si trova così ad essere depositario di un sapere non dimostrabile, non condivisibile dal soggetto, quindi di un potere sacrale, e il paziente finisce per essere in balia della dipendenza.
In realtà ogni trauma è tale per il significato che assume all’interno della mente del soggetto e della cultura alla quale egli appartiene o che egli ha interiorizzato.
In questo articolo mi propongo di analizzare criticamente il concetto di trauma psichico, interpolando questioni di ordine epistemologico (relative allo statuto scientifico del concetto), metodologico (relative al modo come nel dialogo clinico il concetto viene inferito), ed infine di ordine etico (relative alla sua legittimità morale). Lo farò integrando diversi paradigmi, al fine di contribuire a una definizione solida e complessa del concetto di “trauma”, che tenga conto del ruolo dei significati, della coscienza, della struttura sociale e delle dinamiche intrapsichiche.
Trauma fisico e trauma mentale: un’analogia fallace
Il concetto di trauma psichico, oggi ampiamente utilizzato in psicoterapia, è stato storicamente mutuato dalla medicina, dove possiede una definizione chiara e inequivocabile: una lesione organica che compromette il funzionamento di un tessuto o di un organo. Trasposto nel campo della psicologia, tuttavia, tale concetto si carica di ambiguità e richiede una più accurata fondazione epistemologica. È infatti inadeguato considerare l’equivalenza tra trauma fisico e trauma psichico, poiché la mente non è un organo anatomico, ma una funzione emergente dell’intero organismo in relazione con l’ambiente, gli altri esseri umani e i sistemi simbolici e culturali.
In ambito medico, il trauma si definisce come una lesione prodotta da un agente esterno che compromette l’integrità strutturale e funzionale di un organo. Tale lesione è oggettivamente identificabile e quantificabile. Questa chiarezza concettuale è dovuta alla conoscenza relativamente stabile che abbiamo dell’organismo biologico e delle sue modalità di funzionamento.
Secondo la scienza medica, il trauma fisico (organico) è definito come una lesione a un organo o tessuto corporeo, causato da un agente esterno che compromette l’integrità anatomica e/o la funzionalità fisiologica della parte colpita. Questa definizione implica alcuni elementi chiave: 1) causalità esterna: il trauma è sempre provocato da un evento esterno (es. caduta, incidente, ferita, ustione). 2) Impatto diretto e localizzabile: la lesione è concreta, identificabile e spesso visibile tramite esame fisico o strumentale (radiografia, TAC, ecc.). 3) Compromissione funzionale: il trauma riduce o altera il funzionamento dell’organo o sistema coinvolto (es. difficoltà motoria, dolore, emorragia, infiammazione). 4) Evidenza clinica: può essere valutato oggettivamente secondo parametri anatomici e fisiologici (es. entità della frattura, grado di ustione, perdita di sangue, ecc.).
In psicologia, accade tutt’altro. La mente non è un’entità organica ma un insieme di processi cognitivi, emotivi, rappresentazionali e simbolici che emergono dall’interazione tra cervello, corpo, altri esseri viventi, nonché con l’ambiente sociale e la cultura. Pertanto, applicare il termine “trauma” in modo diretto, come se fosse l’equivalente di una lesione mentale oggettiva, è concettualmente inappropriato. Non può essere considerato né una lesione d’organo né un danno in senso proprio, bensì una alterazione funzionale di quella funzione emergente che è la mente.
La Psicologia dialettica (di Luigi Anepeta e mia), sostiene che la mente non può essere ridotta al cervello: essa è il prodotto di un’interazione dialettica tra istanze interne (bisogni, desideri, vissuti, valori) e contesti esterni (famiglia, scuola, società, cultura, sistemi semiotici e di valori). In questa linea, un trauma psicologico non è la semplice conseguenza di un evento doloroso, ma il risultato di una significazione soggettiva dell’esperienza, che varia da individuo a individuo e da cultura a cultura. L’alterazione della mente che chiamiamo trauma si organizza intorno al significato dell’esperienza traumatica, non all’evento in se stesso.
Allo stesso modo, per esempio, una sindrome da disturbo post traumatico, una dipendenza da sostanze, un sintomo ossessivo o depressivo non sono il mero effetto di un danno traumatico, bensì un atto significativo e funzionale della mente, che deve essere interpretato.
L’illusione dell’oggettività: critica alla psicologia traumatocentrica
La psicologia contemporanea, soprattutto nella sua declinazione traumatocentrica, tende a identificare il trauma con qualsiasi evento interpretato dal terapeuta o dal paziente come negativo. Questa identificazione, tuttavia, elude una serie di fattori cruciali:
- La selettività della coscienza, soprattutto in età infantile, che filtra e modula gli stimoli esterni per evitare la destabilizzazione dell’Io.
- La necessità di un significato attribuito all’evento, senza il quale non può esistere esperienza psicologica, quindi nemmeno esperienza traumatica in senso proprio.
- Il ruolo della cultura nel determinare i significati, quindi ciò che è vissuto come “traumatico” e ciò che non lo è.
Il trauma, quindi, non è l’evento in sé, ma il modo in cui esso viene ricordato, interpretato, narrato e integrato nella coscienza. A mio avviso, ogni trauma presuppone un ricordo che ha avuto accesso alla coscienza, anche se successivamente può esserne stato dissociato o rimosso. In altre parole, non esiste un trauma puro, biologico, oggettivo (che non sia di natura fisica), ma sempre e solo una costruzione soggettiva e simbolica.
La nostra convinzione che il significato sia più importante dello stesso evento non solo nella vita comune ma anche nello strutturarsi di una psicopatologia ha una clamorosa prova a contrario: gli infiniti casi in cui i ricordi, e quindi anche i traumi sono inventati. Non solo a bella posta, con piena intenzione da parte degli agenti (paziente e terapeuta), ma anche nella più totale inconsapevolezza di entrambi. Un significante imperioso e ossessivo, per esempio «Odio mio padre» può generare il significato immaginario che gli dà coerenza logica, sostanza ed efficacia: «Lui ha abusato di me quando avevo 3 anni!». In neuropatologia, a cominciare dagli studi pionieristici di Roger Sperry e Michael Gazzaniga, sappiamo che tutti i casi di split brain, cioè di cervello resecato in due emisferi per necessità cliniche, l’emisfero destro ascolta un comando del ricercatore e compie un’azione e l’altro, l’emisfero sinistro, dotato di linguaggio, richiesto di spiegarla, inventa un qualunque spiegazione di quell’evento, anche falsa purché di una certa coerenza logica e un qualche crisma di credibilità. Ciò dimostra che la mente è composta di un tessuto di significati più che di eventi oggettivi. E non si tratta di una disfunzione anti-evoluzionistica, perché la priorità della rete dei significati rispetto agli eventi empirici rimanda al primo bisogno evoluzionistico della specie Homo sapiens: comunicare con gli altri esseri umani e farlo in modo da essere accreditati di fiducia, cioè in modo da captarne la benevolenza.
La nostra posizione, che vede il campo semiotico come agente della comunicazione e la narrazione come effetto soggettivo di esso è in linea con la teoria di Jerome Bruner della costruzione narrativa del Sé (1990), secondo la quale la nostra identità si costruisce attraverso i racconti che facciamo di noi stessi. È in linea inoltre con la concezione di memoria culturale di Jan Assmann (1997), che mostra come la memoria individuale sia sempre inscritta in cornici culturali.
Secondo Jan Assmann, l’identità individuale è strettamente legata alla memoria personale, ma questa memoria individuale non sorge dal nulla, è influenzata dalla memoria culturale del gruppo sociale. Allo stesso modo, e reciprocamente, La memoria culturale, secondo Assmann, non è una semplice somma di ricordi individuali, ma un processo attivo di costruzione e trasmissione del passato, che modella l’identità e il senso di appartenenza di un gruppo. Dal nostro punto di vista – sono i valori e le credenze a mediare il rapporto fra individuale e sociale (collettivo): non esiste fatto psichico, per quanto unico possa apparire, senza una valutazione e un riconoscimento sia emotivi che cognitivi all’interno della rete dei sistemi di valori.
In nostro punto di vista è inoltre compatibile anche con una parte della psicoanalisi. Secondo questa psicoanalisi, che, mutuando una definizione di Carl Gustav Jung, vorrei chiamare “complessa”, il trauma relazionale, esistenziale o cumulativo si presenta non solo e non tanto come ricordo di un evento, ma come sistema organizzato di adattamento, un’organizzazione difensiva dell’identità. Secondo Donald Winnicott, il bambino che non trova un ambiente sufficientemente “buono” sviluppa un falso Sé, ovvero una personalità che si adatta ai bisogni esterni reprimendo il proprio nucleo autentico.
Questa struttura, se protratta, diventa traumatica non per ciò che è successo, ma per ciò che non è potuto accadere: il riconoscimento affettivo, l’accettazione interpersonale, quindi l’emergere del Sé autentico, È un trauma da “vuoto”, non da pieno. Personalmente, ho ripreso questo concetto parlando di “trauma intrapsichico” inflitto da una parte della mente (adattata) a un’altra parte (autentica).
Il trauma come danno relazionale e come esito della significazione
Nella teoria dell’attaccamento disorganizzato, Mary Main descrive il trauma come la coesistenza non integrabile di attrazione e paura nei confronti della figura di attaccamento. Egualmente, Judith Herman ha elaborato la nozione di “trauma relazionale complesso”, secondo la quale le esperienze ripetute di abbandono, controllo o umiliazione producono esiti psichici profondi e duraturi.
Queste osservazione colgono una parte importante della verità: la genesi relazionale della struttura dell’Io. Nondimeno, nel paradigma dialettico, il trauma non è una “scheggia” esterna penetrata nella mente, ma una disfunzione relazionale tra le istanze della personalità. Il trauma è, dunque, una dinamica: una coercizione costante che una parte della mente infligge a un’altra, attraverso l’interiorizzazione di significati persecutori, svalutanti, colpevolizzanti o al contrario ipnotici, esaltanti e illusori.
Anche negli eventi relazionali più espliciti è sempre il significato che il bambino dà dell’esperienza (l’emozione è un atto di significazione) e il ricordo che egli se ne fa (sia pure dissociato o rimosso) a costituire la natura essenziale del trauma psichico. Nella nostra visione, il trauma non è sic et simpliciter l’evento doloroso; è piuttosto la sostituzione dell’agente persecutore con un Io auto-persecutorio, prodotto dall’interazione e dal conflitto irrisolto fra le istanze alienate dell’Io: il Super-io e l’Io antitetico. Il persecutore interagisce con la formazione del Super-io e dell’Io antitetico, quindi agisce nei confronti dell’Io attraverso l’istanza alienata. È lecito in questo senso parlare di un “vissuto traumatico di fondo”, che può derivare da esperienze anche apparentemente banali, ma cariche di un significato distruttivo, come un giudizio morale negativo o una svalutazione affettiva da parte di genitori e tutori o della società nel suo complesso, come anche da parte del soggetto stesso nei suoi confronti.
L’affermazione più radicale del pensiero dialettico è infatti che non è l’evento, ma il significato attribuito ad esso, ad essere traumatico. Due bambini possono essere picchiati dallo stesso genitore nello stesso modo, ma vivere l’esperienza in modo completamente diverso: uno può interiorizzarla come un momento di paura, l’altro come un’umiliazione permanente. Il significato è dunque la chiave del trauma.
Questo impianto è coerente con le teorie ermeneutiche della psicologia contemporanea, come quella di Jerome Bruner (1990, cit.) e Dan McAdams (1993), che concepiscono la mente come una struttura semiotica. Anche in molta teoria psicoanalitica appare centrale l’idea che il significato conscio o inconscio di un’esperienza sia più importante dell’esperienza stessa.
Uno dei modi più efficaci per trasformare un’esperienza traumatica in risorsa di consapevolezza è l’elaborazione narrativa. Secondo Dan P. McAdams, l’identità personale si forma e si trasforma all’interno delle storie che raccontiamo su noi stessi (The Stories We Live By, 1993). In quest’ottica, il trauma è un’interruzione narrativa: un evento che frattura la continuità della storia del Sé, generando un buco nel significato o un capitolo non narrabile.
Analogamente, l’approccio dialettico mira a ricollegare il trauma alla coscienza del soggetto, a inserirlo in una narrazione coerente che restituisca senso e potere interpretativo. Questo processo di integrazione è un atto etico, non solo terapeutico: è un modo per restituire dignità all’esperienza e alla soggettività.
Dipendenza, rischio iatrogeno ed etica della psicoterapia
Personalmente, andrei anche oltre: la tendenza della psicoterapia contemporanea a ignorare il piano dei significati personali e culturali sostituendolo con un approccio tecnico meccanicistico è ampiamente discutibile. L’uso del concetto di “memoria traumatica implicita” diventa uno strumento per eludere il confronto con la coscienza del paziente, consegnando il potere terapeutico esclusivamente nelle mani dell’analista, che si fa interprete unico e indiscutibile del “non detto”.
In tal senso, un grave rischio dell’approccio traumatocentrico, di cui si è in genere poco consapevoli, consiste nella deriva autoritaria della figura terapeutica. Se il trauma è inconscio, inaccessibile, e solo il terapeuta può “intuirlo” ed “evocarlo” attraverso il controtransfert, allora il paziente perde ogni possibilità di verifica e diventa radicalmente dipendente da una figura sacralizzata, una figura sacerdotale.
Si tratta in questo caso di una forma di terapia regressiva, che in realtà ostacola la crescita dell’autocoscienza del paziente. Al potere sacrale del terapeuta si associa perdipiù un potere paradossalmente traumatico, perché dichiarare al paziente che egli ha subito traumi che può ricordare solo per diretta induzione da parte dell’analisi significa non solo esautorarlo del suo potere di auto-consapevolezza ma anche farlo sentire danneggiato da qualcosa di inesplicabile, che lo rende più malato degli altri e che forse non potrà padroneggiare mai. Indurre in un individuo l’idea di aver subito un trauma di cui ha solo memorie confuse, che il tecnico potrà aiutare a chiarire, significa indurgli un sentimento di intrinseca e tragica vulnerabilità, che lo confina nell’ambito delle vittime o tutt’al più dei sopravvissuti. Questa induzione è il modo migliore per sabotare in chiunque la certezza della verità e della propria autonomia cognitiva e morale. Parlerei in questo caso di un danno iatrogeno, un danno prodotto dalla cura, non diverso da quello che lo psichiatra organicista infligge al suo paziente nel momento in cui gli dichiara con certezza che la psicopatologia da cui è affetto ha origini genetiche e non è guaribile, ma solo gestibile con l’assunzione di psicofarmaci per tutta la vita.
Al contrario, l’obiettivo della psicoterapia dialettica è favorire la presa di coscienza, la narrazione consapevole, la riorganizzazione del Sé attraverso il linguaggio, nonché l’assunzione da parte del paziente del suo potere esistenziale intrinseco.
Una delle asserzioni più originali della psicologia dialettica è che il trauma non sia solo psichico, ma etico: riguarda il valore che il soggetto attribuisce a sé stesso e alla propria vita. Il trauma è spesso una frattura del valore, un’implosione della fiducia nella bontà delle relazioni umane e nella propria dignità. In questo senso, la terapia non è solo guarigione di sintomi, ma ricostruzione di un’etica personale. Si tratta di aiutare il paziente a riformulare il proprio sistema di significati, a rigenerare il proprio senso morale, a ritrovare una coerenza tra ciò che sente, pensa e fa.
L’etica della psicoterapia dialettica è dunque un’etica della libertà e della consapevolezza. Non si tratta di adattare il paziente alla realtà, di riconoscersi come vittima sopravvissuta di un trauma, ma di aiutarlo a trasformare la realtà attraverso una nuova posizione soggettiva. Il trauma, da lesione passiva, diventa allora ferita generativa, occasione di crescita, trasformazione, emancipazione.
Trauma, insiemi e giochi di prestigio
Un altro rischio insito nella teoria del trauma è quello di adoperare la struttura dell’inconscio emotivo, che è insiemistica (o frattalica) per avvalorare la tesi che ogni trauma o esperienza forte attuale rimandi a un trauma originario responsabile dello stato patologico.
Nella clinica psicoterapeutica è frequente imbattersi in narrazioni che pongono l’accento su un presunto “trauma originario”: un evento remoto, spesso collocato nell’infanzia, al quale si attribuisce il potere esplicativo di tutto ciò che accade nel presente. Questa costruzione, che ha radici profonde nella tradizione psicoanalitica, si basa su un’intuizione fondata – l’importanza dell’infanzia nella strutturazione dell’Io – ma, sulla base della generalizzazione, può trasformarsi in una trappola interpretativa.
A partire dagli studi di Ignazio Matte Blanco, passando per i contributi di Fornari, Damasio, Di Chiara nonché di Anepeta e miei, si delinea una concezione dell’inconscio come organizzazione logico-emotiva, capace di associare esperienze eterogenee in base alla loro qualità emotiva, più che alla loro sequenza temporale e alla loro consequenzialità storica. Questo funzionamento ha una semplice spiegazione evoluzionistica: esso consente una rapida classificazione di un’infinità di esperienze disparate. In sostanza, la logica degli insiemi emotivi funziona mediante generalizzazione. Dunque, se non adeguatamente compreso, questo funzionamento può portare a una narrazione arbitraria e fallace dell’esperienza traumatica, alimentando, con una sorta di gioco di prestigio, il mito di un trauma originario.
Matte Blanco e la logica dell’inconscio. Ignazio Matte Blanco, psicoanalista e filosofo della mente di origine argentina, fu tra i primi a proporre che l’inconscio non fosse caotico o illogico, ma organizzato secondo una logica propria, che chiamò simmetrica(1975). A differenza della logica asimmetrica (tipica del pensiero cosciente), la logica simmetrica funziona per insiemi inclusivi. In essa, le parti sono equivalenti al tutto, e ciò che è simile può essere trattato come identico.
Un esempio empirico: se un adulto prova tenerezza guardando un bambino, il suo inconscio può attivare il ricordo di quando egli stesso era bambino e riceveva o desiderava tenerezza. L’inconscio unisce le due esperienze sotto un insieme astratto come “tenerezza adulto-bambino”. Questo legame non è arbitrario: è logico secondo la logica simmetrica, ed è affettivo, perché l’elemento comune tra le due situazioni è la tenerezza. Ma ciò non ci autorizza a pensare che se l’adulto prova ansia all’idea che quel bambini venga abbandonato, quest’ansia sia il ricordo indiretto che egli stesso sia stato vittima di un abbandono.
Franco Fornari e Giuseppe Di Chiara. Franco Fornari ha radicalizzato questa intuizione, sostenendo che gli affetti (le emozioni) sono i veri “segni” dell’inconscio. Secondo lui, prima della parola e del pensiero logico, la mente umana opera tramite simbolizzazioni affettive: le emozioni non sono solo risposte, ma forme di pensiero, strutture attraverso cui l’esperienza viene organizzata.
In questa prospettiva, il ricordo non si struttura cronologicamente, ma affettivamente: esperienze diverse nel tempo si collegano non perché siano simili nei contenuti, ma perché suscitano lo stesso tono emotivo. Ciò significa che un evento traumatico presente può richiamare un ricordo infantile non perché questo sia la vera “origine” del trauma, ma perché è emotivamente compatibile con l’esperienza attuale.
Giuseppe Di Chiara ha elaborato il concetto di coerenza affettiva, sostenendo che l’inconscio mantiene nel tempo una certa stabilità emozionale, organizzando l’esperienza in insiemi coerenti. La mente tende a ricondurre ogni emozione a una matrice preesistente, costruendo insiemi di senso in cui eventi lontani tra loro finiscono per coesistere. Anche qui, il criterio unificante non è la cronologia, ma l’emozione.
Antonio Damasio: neuroscienze affettive e marcatori somatici. Anche in ambito neuroscientifico troviamo conferme di questa visione. Secondo Antonio Damasio, le emozioni non sono meri epifenomeni, ma strutture profonde che influenzano la percezione, la memoria e il pensiero. Il concetto di marcatore somatico indica che ogni esperienza emotiva viene registrata in forma corporea e può agire come scorciatoia cognitiva: quando una situazione simile si presenta, la risposta emotiva è anticipata, spesso inconsapevolmente, dal corpo stesso.
Questo significa che una sensazione attuale di dolore, paura o tenerezza può richiamare automaticamente stati corporei ed emozionali simili, indipendentemente dalla loro origine storica. Il cervello, per motivi di efficienza classificatoria, collega ciò che somiglia, non solo ciò che è connesso in senso causale. Da qui, il rischio di stabilire nessi causali fra esperienze disomogenee e distinte, costruendo così una narrazione “logica” solo in apparenza.
Nel contesto della discussione del trauma psichico, la neurobiologia ci è molto utile, perché può correggere la tendenza psicoterapeutica a postulare emozioni e addirittura stati corporei privi di pensiero. Dal nostro punto di vista, ogni stato corporeo e quindi anche ogni emozione è dotata dalla mente di un significato. Significativo è ciò che genera una comunicazione segnica: se il terapeuta può percepire i “segni” di un trauma è proprio perché è inserito nel campo semiotico del paziente. Uno stato neurale può non essere cosciente: noi di solito non siamo coscienti dei nostri stati neurali e spesso non lo siamo nemmeno dei nostri stati fisiologici. Nondimeno, uno stato neurale o fisiologico viene tradotto in segni non appena è oggetto di cognizione da parte della mente. In quel momento, esso diviene pensiero, ed è questo pensiero che organizza il campo semantico interpersonale e sociale. L’esperienza traumatica è quindi e innanzitutto un significato, che come tale può essere comunicato – sia coscientemente che inconsciamente – mediante segni.
La psicologia dialettica: il campo emotivo come struttura narrativa. Nella cornice della psicologia dialettica, abbiamo ripreso e sviluppato il concetto di rete dei valori emotivi in chiave clinico-esistenziale. Noi riteniamo che la mente funzioni come un campo semiotico dialettico in cui emozioni, significati e rappresentazioni entrano in relazione secondo leggi dinamiche non necessariamente lineari. Il trauma anche quando coincida con un fatto oggettivo, agisce in quanto struttura affettiva e narrativa, che si costruisce nel tempo e si ridefinisce in base ai nuovi eventi.
Secondo noi, il rischio clinico più frequente è quello di proiettare nel passato un significato che nasce nel presente: un dolore attuale viene letto come riattivazione di un trauma antico non perché ciò sia vero storicamente, ma perché la mente tende a dare continuità e coerenza al proprio dolore. Il “trauma originario” diventa così una costruzione narrativa, coerente a livello affettivo, ma non necessariamente veritiera.
La costruzione fallace del trauma originario. Alla luce di queste riflessioni, possiamo comprendere il meccanismo attraverso cui esperienze eterogenee vengono arbitrariamente unificate, dando origine alla mitologia clinica del trauma originario. Un esempio clinico: un adulto viene lasciato dal partner e, in seduta, riporta improvvisamente alla memoria una scena d’infanzia in cui la madre lo dimentica all’asilo. Il paziente costruisce così la narrazione: “Sono sempre stato abbandonato”. Tuttavia, questa ricostruzione può essere fallace, perché non tiene conto che la connessione tra le due esperienze non è storica, ma emozionale e simbolica. È la logica simmetrica che le accomuna, è la coerenza affettiva che le fa sembrare legate. Ma ciò non implica che la prima esperienza sia la causa della seconda.
Anzi, il pericolo è proprio questo: attribuire un’origine fissa e immutabile a qualcosa che, in realtà, è dinamico e stratificato, chiudendo così la possibilità di trasformazione. La mente, in cerca di senso, tende a costruire mitologie interne, creando “archivi del dolore” dove tutto torna, tutto si spiega, ma nulla si libera davvero.
Questa riflessione ha profonde implicazioni per la pratica terapeutica. Il terapeuta deve sospendere il bisogno di causalità lineare e aiutare il paziente a vedere la propria esperienza come un campo semiotico complesso, dove il passato non è solo origine, ma anche costruzione attuale.
Ciò implica:
Ricostruire la grammatica affettivo del paziente, distinguendo tra somiglianza emotiva e continuità storica.
Legittimare il dolore attuale senza doverlo per forza spiegare con un trauma remoto.
Restituire complessità al vissuto, interrompendo la tendenza a creare spiegazioni troppo semplici.
Una parte importante della psicoterapia contemporanea, dunque, può consistere talvolta nel decostruire la mitologia emotiva che ne sostiene l’illusione del trauma originario, restituendo al soggetto la libertà di riscrivere la propria storia – non come catena causale deterministica, ma come trama di senso e trasformazione.
Trauma, senso e conoscenza
La nostra posizione teorica trova una notevole consonanza con la logoterapia di Viktor Frankl (1959), che propone di superare la sofferenza attraverso la ricerca di senso. Frankl è uno degli autori che più radicalmente ha legato il trauma al tema del significato. Sopravvissuto ai campi di concentramento, Frankl ha sostenuto che l’essere umano può sopportare qualsiasi dolore, purché riesca a conferirgli un senso. Citando Nietzsche, scrive: «Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come» (Uno psicologo nei lager, 1946).
La logoterapia non nega la realtà del trauma, ma ne rifiuta la passivizzazione: propone invece una via attiva, di risignificazione. In questo è vicina alla psicologia dialettica, che propone una presa di responsabilità sulla propria storia, non in senso moralistico, ma come riappropriazione della propria narrazione soggettiva.
Altrettanta consonanza la troviamo con la Terapia Metacognitiva Interpersonale di Giancarlo Dimaggio e Antonio Semerari, che punta a sviluppare la capacità del paziente di pensare i propri stati mentali e quelli altrui.
Secondo Dimaggio e Semerari (2003), nelle persone traumatizzate si osserva spesso una frammentazione dell’identità narrativa e una difficoltà a costruire un senso coerente delle proprie esperienze interiori. Emergono allora vissuti di confusione, vergogna ed isolamento emotivo e nascono relazioni caotiche. Il trauma, quindi, non è solo un ricordo doloroso, ma un significato che squilibra le funzioni simboliche e autoriflessive della mente.
Il trattamento, secondo la TMI, non mira a “scoprire” un trauma nascosto, ma a ricostruire la capacità del paziente di pensarsi e narrarsi, favorendo la rielaborazione riflessiva e condivisa delle esperienze personali. Il terapeuta lavora sulla disfunzionalità della narrazione, aiuta il paziente a rimettere insieme le parti scisse del Sé e a costruire storie mentali coerenti, integrando significati ed emozioni.
In sintesi, curare il trauma significa riattivare le funzioni metacognitive compromesse, restituendo al soggetto la possibilità di riconoscersi, autorappresentarsi e comprendere sé e gli altri in modo empirico e realistico. In questo, la prospettiva di Dimaggio e Semerari è compatibile con la visione dialettica del trauma: non è l’evento in sé che attacca l’integrità dell’Io, ma l’impatto alienante e distorsivo del suo significato, quindi l’incapacità relativa di pensarlo trasformandolo in esperienza e conoscenza.
Trauma e struttura sociale: il contributo della psicologia dialettica
In sintesi, la prima e la più palese rimozione della psicologia traumatocentrica è quella del campo psicogenetico socio-culturale. Nella nuova mitologia psicoterapeutica, il trauma attiene solo a grandi eventi fuori dall’ordinario: nella vita privata, si tratta di abusi sessuali infantili, gravi maltrattamenti fisici e psichici, catastrofi familiari; nella vita collettiva, sono visti come traumi solo le guerre mondiali, la shoah, i genocidi, le pandemie, le migrazioni di massa, il collasso climatico. Il vocabolario catastrofista serve ad alimentare l’immagine di un mondo diviso fra buoni e cattivi e inteso a far sentire il soggetto univocamente una vittima. In sostanza, una visione moralista sostituisce l’analisi storico-sociale e morale della realtà.
Secondo la psicologia dialettica, fatti salvi e ovvi questi macro-eventi, che rappresentano una minoranza straordinaria rispetto ad un maggioranza del tutto ordinaria di situazioni sociali capillarmente persecutorie che caratterizzano da la vita quotidiana. È infatti proprio la vita ordinaria, la vita “normale” (come suggeriva Erich Fromm) a dover essere analizzata. Si scoprirebbe allora che la mente è intessuta da sistemi di valori prodotti dalla vita quotidiana, che stabiliscono regole normative, prescrizioni e proscrizioni, la cui interiorizzazione può indurre, su soggetti sensibili e plusdotati, effetti traumatizzanti. I sistemi di valori ordinari – cioè le norme morali, culturali e simboliche condivise in una società o in un gruppo sociale – possono svolgere una funzione traumatica nel processo educativo allorché i valori trasmessi vengono posti come assoluti, non dialettici, e interiorizzati in forma autoritaria, generando scissioni interne, repressione del sé autentico e conflitti morali irrisolvibili. Nei soggetti altamente sensibili ciò accade anche con valori mediamente rigidi.
Ovviamente situazioni eccezionali inducono processi educativi eccezionali; che tuttavia possono essere assunti come metafore della norma. Frantz Fanon, in I dannati della terra (1961), ha evidenziato come l’esperienza coloniale non abbia comportato solo sfruttamento economico e minorazione politica, ma anche un trauma psichico specifico: il colonizzato interiorizza l’immagine del colonizzatore e sviluppa odio verso sé stesso. Il trauma deriva da una organizzazione sociale che promuove significati specifici, trasmessi in modo diretto e indiretto. Come nella Sindrome di Stoccolma, nella quale il rapitore si trova nella condizione di veicolare messaggi autoritari che definiscono il rapporto e che il rapito può solo subire. In questi casi è evidente come siano i significati interiorizzati a determinare l’intensità e l’efficacia persecutoria del trauma. La sofferenza psichica è allora un conflitto morale prodotto dalla subordinazione da un lato e, dall’altro, da un bisogno di opposizione frustrato.
Secondo la psicologia dialettica, il trauma può nascere non solo da eventi violenti o traumatici in senso stretto, ma anche dall’introiezione di sistemi valoriali incompatibili con la struttura emotiva e simbolica del soggetto. Quando il bambino riceve messaggi morali rigidi (“devi essere buono”, “non si piange”, “chi fallisce è uno stupido”) interiorizza un Super-io persecutorio che giudica, colpevolizza e soffoca l’Io originario, più spontaneo, generando un conflitto intrapsichico. Questo trauma cumulativo non coincide mai con un singolo evento, anche se un singolo evento può fungere da simbolo per rappresentarlo, ma agisce come tensione costante, e può esplodere nell’adolescenza, quando il soggetto inizia a cercare un proprio senso e identità.
La scuola storica delle Annales, a cominciare da Philippe Ariès (1960), ha mostrato come l’infanzia non sia una realtà naturale ma una costruzione storica e culturale. I valori educativi trasmessi ai bambini variano da epoca a epoca, e riflettono l’or4dine gerarchico delle classi. L’adolescente si trova così costretto tra esigenze di autonomia personale e richieste sociali trasmesse dalle istituzioni educative (genitori, famiglia, scuola, religione) che non riconoscono la soggettività in formazione, bensì quella già formata, generando fratture nello sviluppo del Sé.
Anche la psicologia sociale ha mostrato come la pressione del gruppo e delle norme sociali possa avere effetti patologici sullo sviluppo individuale. Lavori di autori come Solomon Asch, Stanley Milgram, Philip Zimbardo hanno evidenziato quanto l’individuo, a partire dall’infanzia, tenda a conformarsi a valori collettivi anche contro la propria percezione morale. Questo conformismo può produrre vissuti di alienazione e conflitto già in età infantile e adolescenziale.
In sintesi, i valori non sono mai neutrali: se trasmessi in forma non dialettica, possono sortire effetti traumatici, soprattutto nelle fasi evolutive in cui il soggetto cerca di definire una propria identità autonoma.
Come già sottolineava Michel Foucault, la psicologia tende spesso a funzionare come dispositivo di normalizzazione: etichetta come patologico ciò che è, in realtà, un prodotto dell’oppressione sociale. In questo modo relega la sofferenza psichica nell’ambito verticale della “cura”, piuttosto che farla accedere al campo dialettico della presa di coscienza circa la verità dei rapporti umani, verità non solo relazionale ma anche storica e sociale.
Foucault ha descritto con precisione come le istituzioni (scuola, ospedale, carcere, famiglia) producano da un lato soggettività docili, dall’altro devianze patologiche. In Sorvegliare e punire (1975), mostra come il potere si eserciti sul corpo e sulla mente, creando soggetti normalizzati, obbedienti, ma anche scissi e rivoltosi.
Ogni concezione puramente relazionale del trauma rischia di occultare la sua radice sociale, quindi anche politica. La psicologia dialettica non ignora questo aspetto: anzi, lo considera centrale. Insiste sul fatto che il trauma è in segno di una sopraffazione da parte di significati morali imposti, di ideologie che generano auto-persecuzione, colpa e alienazione.
Questa omissione è a mio avviso grave: il trauma può derivare da un’interiorizzazione di norme, valori, ideologie che lacerano l’Io ponendolo in conflitto con il proprio desiderio, inibendo, ritardando o impedendo del tutto la formazione di un Sé autonomo e coeso. Il trauma si rivela come una forma di alienazione: una scissione tra ciò che si deve essere secondo le aspettative sociali (anche persecutorie) e ciò che si è intrinsecamente.
Questo approccio è condiviso anche da ogni psicologia critica che vede nel trauma non solo una ferita individuale, ma un sintomo di disfunzioni collettive. Le esperienze traumatiche sono spesso il risultato di violenze sistemiche, da indagare di volta in volta.
Alla luce di quanto detto, possiamo delineare i tratti fondamentali di una teoria dialettica del trauma:
- Il trauma mentale non è semplicemente un’entità oggettiva, è piuttosto una costruzione relazionale, soggettiva e culturale.
- Non si dà trauma mentale senza pensiero, significazione e memoria.
- Il trauma è il risultato di una relazione patologica tra istanze psichiche, almeno una delle quali è persecutoria.
- Ogni trauma ha una componente morale, affettiva e simbolica.
- La terapia deve mirare alla consapevolezza, alla rielaborazione narrativa e alla ricostruzione del Sé.
- Il contesto sociale e culturale non è mai secondario; è semmai costitutivo del trauma.
In tal modo, il concetto di trauma si libera della sua ambiguità e ritrova uno statuto epistemologico, metodologico ed etico coerente con l’antropologia psicologica e le scienze sociali.
Bibliografia dell’autore
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Ghezzani N., Relazioni crudeli, FrancoAngeli, Milano, 2019.
Ghezzani N., La specie malata, FrancoAngeli, Milano, 2020.
Ghezzani N., Il dramma delle persone sensibili, FrancoAngeli, Milano, 2021.
Ghezzani N., Persone sensibili in terapia , FrancoAngeli, Milano, 2024.
Bibliografia nel testo
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Dimaggio G., Semerari A., I disturbi di personalità, modelli e trattamento, Laterza, Roma-Bari 2003.
Frankl, V. (1946). Uno psicologo nei lager. FrancoAngeli, Milano, 2017.
Frankl, V., Man’s Search for Meaning. Boston: Beacon Press 1959
Fornari, F. (1976). Psicoanalisi della guerra. Il Saggiatore.
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Ghezzani, N., (2008). La logica dell’ansia. Milano: FrancoAngeli.
Ghezzani N., Relazioni crudeli, FrancoAngeli, Milano 2019.
Ghezzani N., Ipocondria, FrancoAngeli, Milano 2025.
Halbwachs M., Les cadres sociaux de la mémoire, 1925; trad. it. I quadri sociali della memoria, Liguori, Napoli 1997.
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Fanon, F. (1961). Les damnés de la terre. Paris: Maspero.
Appendice:
La querelle sulle memorie traumatiche recuperate
Il trauma “recuperato”
Negli Stati Uniti — e in misura minore anche in altri paesi occidentali — si sono verificate numerose cause legali legate a psicoterapie regressive e ricostruttive, che hanno sollevato gravi questioni etiche, legali e scientifiche. Tali terapie avevano in comune il presupposto che alcuni disturbi psichici potessero derivare da traumi dimenticati o rimossi, in particolare abusi sessuali infantili, e che fosse compito del terapeuta “recuperarli” attraverso tecniche suggestive come l’ipnosi, l’immaginazione guidata, la scrittura automatica o la rievocazione simbolica.
Queste vicende hanno avuto un profondo impatto sul mondo della psicoterapia, generando un dibattito che coinvolge la validità delle memorie recuperate, la responsabilità del terapeuta, il concetto stesso di trauma e la distinzione tra ricordo, immaginazione e costruzione narrativa.
L’esplosione delle “memorie recuperate” negli USA
Negli anni ’80 e ’90 negli Stati Uniti si diffuse un’ondata di terapie focalizzate sul recupero di presunti traumi rimossi, soprattutto tra pazienti adulti (spesso donne) con sintomi ansiosi, depressivi o dissociativi. I terapeuti, ispirati da teorie psicoanalitiche e dalla letteratura femminista dell’epoca, ritenevano che la causa di tali sintomi fosse un abuso sessuale infantile mai ricordato, e che portare alla luce questo trauma fosse la chiave della guarigione.
Molti pazienti cominciarono così a “ricordare”, sotto guida terapeutica, episodi traumatici di violenza sessuale, incesto, e in alcuni casi abusi rituali satanici, spesso senza alcun riscontro oggettivo. Tali “ricordi” portarono a denunce penali e civili contro genitori, familiari e conoscenti, spesso sulla base esclusiva delle affermazioni del paziente e della validazione del terapeuta.
Le cause legali: principali motivi
Nel corso degli anni ’90, però, diversi pazienti iniziarono a ritrattare i ricordi indotti durante la terapia, affermando di essere stati suggestionati, manipolati o convinti dal terapeuta ad accettare come veri eventi che non erano mai accaduti. Nacquero così numerose cause legali per:
- malpractice terapeutica (negligenza professionale);
- induzione di false memorie;
- danni morali e psicologici causati da una diagnosi traumatica non verificabile;
- separazioni familiari e distruzione di relazioni sulla base di ricordi non corroborati.
Uno dei primi casi noti fu G. Ramona v. M. Isabella (1994), in cui un uomo fece causa allo psicologo della figlia, accusandolo di averla convinta, durante una terapia, che fosse stata da lui abusata. Il tribunale gli diede ragione, stabilendo che il terapeuta aveva agito con negligenza, e riconobbe al padre un risarcimento di 500.000 dollari.
Elizabeth Loftus, esperta e famosa psicologa cognitiva, testimoniò in molte di queste cause e condusse esperimenti dimostrando quanto fosse facile indurre falsi ricordi in soggetti suggestionabili. I suoi studi, come il celebre Lost in the Mall experiment, mostrarono che anche adulti sani potevano venire convinti di ricordare eventi mai accaduti.
Gli effetti legali e culturali
Il dibattito sulle “false memory syndrome” portò alla fondazione della False Memory Syndrome Foundation (FMSF) nel 1992, da parte di Pamela e Peter Freyd, dopo essere stati falsamente accusati dalla figlia di abusi sessuali ricostruiti in terapia. La FMSF si fece promotrice di informazione, ricerca e supporto legale a favore di persone coinvolte in accuse basate su memorie recuperate non verificate.
Dal punto di vista giuridico, le corti cominciarono a diventare più caute rispetto all’ammissione di testimonianze fondate su “memorie recuperate”. Si affermò il principio che tali memorie, senza evidenza esterna, non potevano costituire una base sufficiente per una condanna penale. Inoltre, alcuni stati americani misero limiti più rigidi all’uso dell’ipnosi in ambito terapeutico e forense.
Conseguenze sulla psicoterapia
L’ondata di processi e controversie costrinse il mondo psicoterapeutico a una profonda autocritica. Le associazioni professionali, come l’American Psychological Association (APA), emisero linee guida più restrittive, tra cui:
- evitare la suggestione attiva di ricordi traumatici;
- non assumere una posizione di certezza su memorie traumatiche non corroborate;
- mantenere un atteggiamento esplorativo e non direttivo;
- tenere sempre presente il principio di non-maleficenza (“primum non nocere”).
Si mise l’accento sulla necessità di distinguere tra memoria narrativa, ricordo autobiografico e costruzione simbolica, e si riconobbe che le memorie traumatiche possono essere anche distorte, ricostruite o immaginate, senza per questo essere necessariamente false o inutili in terapia — ma da trattare con cautela.
In altri paesi
Fenomeni simili si verificarono anche nel Regno Unito, in Canada, Australia e in misura minore in alcuni paesi europei. Nel Regno Unito, ad esempio, vi furono cause legali molto simili, che spinsero il British Psychological Society a raccomandare estrema prudenza nella validazione terapeutica di memorie recuperate.
In Germania e nei Paesi Bassi, la discussione è stata più contenuta ma comunque presente. In Italia, il dibattito è stato più tenue, anche a causa del minor uso dell’ipnosi e delle tecniche regressive nella pratica clinica ordinaria. Tuttavia, in casi di figure controverse o ai processi per presunti abusi in ambito scolastico (p.es. il caso di Rignano Flaminio) hanno alimentato una certa riflessione, spesso più mediatica che scientifica.
Impatto teorico: una nuova epistemologia del trauma
Il risultato più importante di questa crisi fu forse la ridefinizione epistemologica del trauma. Non è più sostenibile considerare il trauma come un fatto “oggettivo” da scoprire, come una “verità nascosta” nel profondo dell’inconscio. Il trauma è, piuttosto, una costruzione narrativa, una ferita simbolica che ha bisogno di essere riconosciuta e rielaborata, non certificata nei tribunali della memoria.
Questo ha portato molti approcci terapeutici, come la psicoterapia metacognitiva interpersonale, la psicoterapia narrativa e la psicoterapia dialettica (di Anepeta e Ghezzani), a spostare il focus dalla “verità storica” alla “verità narrativa”, cioè dal contenuto dell’esperienza al suo significato.
Come scrive il filosofo Paul Ricoeur:
«Il trauma non è ciò che è accaduto, ma ciò che resta da dire» (Temps et récit, 1985).
Conclusione
Le cause legali sulle “memorie recuperate” hanno avuto l’effetto di portare alla luce i limiti etici e teorici della psicoterapia regressiva, rivelando il pericolo di un approccio dogmatico al trauma. Esse hanno dimostrato che la mente non è una macchina fotografica, e che la memoria è immaginaria e ricorsiva, quindi labile, influenzabile, soggetta a costruzioni retrospettive.
Per il mondo della psicoterapia, queste vicende hanno rappresentato un momento di crisi ma anche di evoluzione: si è aperta una fase più matura, in cui il lavoro sul trauma deve essere dialogico, rispettoso, non suggestivo, e centrato sulla costruzione condivisa del senso, piuttosto che sul recupero autoritario della verità.
In questo contesto, approcci come la psicoterapia dialettica, la terapia metacognitiva interpersonale e le scuole narrative offrono modelli più sicuri, eticamente fondati e teoricamente robusti per trattare il dolore psichico, senza violare l’integrità del soggetto.


