Freud, Jung e la classe dominante

Due sconfitti?

Sigmund-FreudQuando si parla di Freud e di Jung il più delle volte si dimentica che si tratta di due sconfitti. Ci si concentra sul conflitto fra loro, che in effetti li accompagnò tutta la vita, ma si dimentica che essi sono stati degli esclusi.

Per tutto l’arco della sua vita professionale, Freud ha anelato alla cattedra universitaria, il che avrebbe voluto dire far parte della potente classe degli psichiatri (Freud era un neurologo, ma ciò non costituiva un ostacolo: all’epoca psichiatria e neurologia erano discipline affini). Quando Freud accolse Jung nella sua cerchia psicoanalitica, lo fece anche in vista del fatto che il giovane svizzero era già uno psichiatra di fama internazionale e che, essendo il vice di Eugen Bleuler presso il Burghölzli (il celebre ospedale psichiatrico di Zurigo, di cui Bleuler era direttore), era destinato a diventare uno dei dieci psichiatri più potenti del mondo. Ricordiamo anche che Freud era un ebreo, mentre Jung invece poteva vantare non solo natali ariani e una cultura germanica, ma anche uno spirito di intraprendenza e un attivismo rari anche ai suoi tempi. 

Come si sa, l’avance di Freud andò male. Dopo pochi anni i due litigarono a morte e si separarono con reciproca acrimonia. Freud non aveva saputo valutare il carattere indomito di Jung. Né aveva compreso appieno la particolare congiuntura esistenziale durante la quale Jung aveva deciso di prendere contatto con lui. Stupisce che, nella circostanza, il padre della psicoanalisi non si fosse posto la domanda più semplice: «Perché mai un superiore dovrebbe cercare un inferiore?» Freud era superiore a Jung quanto a età e a fama nel mondo culturale (artistico e letterario, non psichiatrico), ma era decisamente inferiore quanto a classe sociale. Freud era un escluso dal mondo accademico, che soffrì tutta la vita della sua esclusione; Jung invece era il pupillo della grande psichiatria internazionale. La risposta alla domanda divenne chiara solo col tempo: Jung (di classe superiore) cercò Freud (di classe inferiore) perché era un ribelle e stava per abbandonare tutti i suoi privilegi. L’ingegno vulcanico  e il carattere impetuoso gli impedivano di aderire ai mantra della psichiatria accademica. 

Jung-and-EmmaIn sostanza, Jung utilizzò Freud per maturare una sua fantasia bohémien: l’incidente con Sabina Spielrein lo attesta con precisione documentale. Egli si lasciò affascinare dalla giovane e colta ebrea russa, una ragazza gravemente malata, forse di una psicosi isterica, e questa – com’era da attendersi – lo trascinò in uno scandalo dalle conseguenze imprevedibili. Jung, che era un abile clinico, la supportò nella crisi, la avviò ad una sostanziale guarigione, poi la inviò a Freud che la accolse volentieri nella sua cerchia. Del breve amore di Jung per Sabina si mormorò abbastanza da gettare ombra sulla sua reputazione. Ma il trauma sociale spinse finalmente Jung alla rottura col mondo puritano e conservatore di appartenenza. 

Sabina_ShpilreinIl “caso Spielrein” fu la prova generale di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo. Il parallelismo con la vicenda vissuta con Freud è stringente. Affascinato dalla psicoanalisi (creatura anch’essa ebraica e un po’ folle quanto l’umbratile Sabina), Jung ebbe con lei una stagione di passione, poi se ne allontanò, ma da questa separazione trasse l’energia per abbattere il suo vecchio mondo e per immaginare una nuova costruzione. 

Dopo aver rotto con Freud, ruppe sia con la psicoanalisi che con la psichiatria, abbandonò Bleuler, si dimise dall’incarico universitario e si dedicò alla professione privata. Divenne di fatto un “artista” della psicoterapia. Diede vita alla sua psicologia e alla sua scuola, che pian piano si diffusero nel mondo. Da allora cessò ogni rapporto con l’accademia e divenne un ricercatore appassionato e originale, nonché un clinico coinvolto nella sua professione. Creò una vasta comunità iniziatica ed esoterica e fu sostanzialmente bigamo per tutta la vita. 

Nel frattempo Freud mieteva un successo sempre più largo, anche lui favorito dal più grave trauma della sua vita: l’emigrazione. Alle soglie dell’invasione tedesca in Austria, egli espatriò in Gran Bretagna con tutta la famiglia. Molti suoi seguaci migrarono in America. E il freudismo ebbe di colpo fama mondiale grazie alla sua improvvisa espansione nel mondo anglosassone.

Il loro parrebbe dunque un percorso premiato dalla Storia. In realtà, sia Freud che Jung furono due sconfitti, ma per motivi diversi. Freud fu uno sconfitto perché escluso dalla neurologia e dalla psichiatria accademiche: avrebbe voluto colonizzarle e invece subì il rifiuto sprezzante da parte della grande e privilegiata classe degli accademici, che lo tennero a distanza. Il suo fu un successo da élite intellettuale, circoscritto alle classi agiate. Jung, che odiava l’accademia, si autoescluse dal Gotha della psichiatria mondiale. Fu a sua volta uno sconfitto perché rinunciò a far parte della Storia della scienza per diventare quel mahatma che poi in effetti divenne, con una torre edificata in ogni Paese della New Age.

E il vincitore?

Chi fu dunque il vincitore? Ma è ovvio! Il vero vincitore fu la psichiatria organicista accademica, che infatti è ancora oggi in testa alla classifica mondiale del potere di gestione delle coscienze umane. 

La psichiatria biologica ha il controllo del 90% della psicopatologia mondiale, è in stretta sorellanza di interessi con la potentissima industria farmaceutica, ha cooptato a sé la ricerca neuroscientifica e si appresta a sbarcare nel nuovo continente dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie. Il giro di affari è immenso. Solo per fare un piccolo esempio: l’Abilify, di Otsuka Holdings, è un antipsicotico, quindi uno psicofarmaco di uso piuttosto raro (indicato nel trattamento della schizofrenia negli adulti e negli adolescenti dai 15 anni in su, oltre che degli episodi maniacali del disturbo bipolare): ebbene, questo farmaco fattura da solo 6 miliardi di dollari l’anno. Un tale bilancio (parliamo di uno psicofarmaco raro, non di ansiolitici e antidepressivi, che fatturano dieci volte tanto) sovrasta i profitti di qualsivoglia odierna corrente psicoterapeutica. Aggiungo: la formazione psichiatrica (in Italia e altrove) è fornita dallo Stato, quindi è istituzionale; quella psicoterapeutica è affidata a una miriade di piccole scuole in competizione e in perpetuo litigio fra loro, interamente a carico del candidato che, oltre a spendere alte cifre per molti anni, deve subire l’umiliazione di supervisioni obbligatorie, surrettiziamente imposte, indegne sia perché gli si impedisce di scegliere un formatore esterno alla scuola, sia perché ledono il diritto del paziente di sapere chi dirige di fatto la sua terapia. 

Dunque, mentre il mondo della psicoterapia è una Babele confusa, scontrosa e incoerente, il mondo della psichiatria appare come un grigio monolite in cui non litiga mai nessuno.

Intendiamoci, la vita e l’esperienza culturale di Freud e di Jung sono state comunque un successo, ed è bene rimarcarlo. I due grandi maestri hanno posto le basi della moderna psicoterapia, che rappresenta pur sempre l’alternativa elitaria alla psichiatria di massa. In tal senso hanno donato (a tutti noi che crediamo che la maturazione del pensiero sia lo strumento per la guarigione della psiche) una base di cui non possiamo più fare a meno. Ma in un certo senso si sono dovuti accontentare entrambi di poteri “locali”: Freud di una Società Psicoanalitica che ha prodotto ricerca empirica e relazionale e poi, nei paesi anglosassoni, anche sociale; Jung di aver posto il seme dell’antipsichiatria (essendo stato in fondo l’antesignano di tale corrente) e di aver contribuito allo sviluppo della controcultura europea e della New Age americana.

Nella vita privata sia Freud che Jung furono benestanti (fra l’altro Jung sposò una donna ricchissima) e oggetto di un culto personale crescente. Ma anche questo in fondo può essere l’ambiguo segno di una sconfitta. La psichiatria organicista classificatoria fondò il suo statuto e il suo potere fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento coi nomi di Wilhelm Griesinger, Emil Kraepelin, Eugen Bleuler e Karl Jaspers, dopo di ché non ebbe mai più né scismi né innovazioni, quindi non ebbe più bisogno di idee e nomi nuovi (come appresero a loro spese i grandi antipsichiatri Franco Basaglia e Ronald D. Laing, morto l’uno di tumore a 56 anni, l’altro di infarto a 61 anni).

lacan-sartre-picasso-camus-de-bouvoirUn potere consolidato (come quello psichiatrico, alla stessa stregua di un potere religioso o politico) ha bisogno solo di una Bibbia (nel caso della psichiatria è il DSM): non ha più alcuna necessità di produrre innovazioni, né ha bisogno di elevare templi ai propri guru. Noi consacriamo il nostro lavoro ai nomi di Freud, Jung, Melanie Klein, Anna Freud, Fromm, Winnicott, Bowlby, Laing, Lacan, Hillman… personalità intorno alle quali si addensa un mito eroico… E li onoriamo al punto di tentare di emularli. La psichiatria biologica non ha bisogno di indicare eroi. Aspira e possiede la superficie piana di una pretesa oggettività, di una pretesa scientificità, dietro la quale si nasconde l’inaccessibilità al confronto che è piuttosto delle religioni. Una religione del mistero e del terrore, che come tale dispone di un tempo fermo, di un tempo che anela all’eternità. 

L’ombra della psichiatria

michael-enid BALINTMa di questa superficie piana, di questa superficialità, noi psicoterapeuti innovativi, esclusi dalla classe dominante siamo l’indistruttibile ombra. Non parlo a nome di tutta la categoria. In molto scuole, il processo creativo è interrotto. 

Avviai la a mia attività di psicoterapeuta verso la fine del 1982, ormai 40 anni fa. Presi in affitto uno stanza in largo Arenula, con affaccio su largo Argentina, una delle zone più centrali ed esclusive di Roma. L’affittuaria del piccolo ma delizioso appartamento era Marisa (Maria Luisa) Fiumanò, una già nota psicoanalista lacaniana, cui ero stato indirizzato da un collega. Condividevamo l’uso di una grande sala vuota, nella quale lei aveva collocato solo pochi elementi di arredo: una piccola scrivania con due sedie e un sontuoso lettino analitico con una poltroncina rinascimentale alle spalle. Avevo la supervisione del mio maestro di quegli anni, Luigi Anepeta, già in aria di antipsichiatria, e condividevo lo studio con una ribelle analista lacaniana. Niente male, per un principiante. 

Evoco questo ricordo perché fra i libri che avevo riposto nella mia piccola libreria a incasso sotto la grande finestra che affacciava su largo Argentina, libri da leggere nei momenti di pausa, c’era uno dei miei autori allora preferiti, Michael Balint, il libro in questione era L’analisi didattica (Balint, 1974). Un giorno non lo trovai più. In un lapsus comportamentale, Marisa l’aveva posto fra i suoi, in una libreria gemella alla mia posta sotto la seconda finestra della sala; e, sempre guidata dal suo inconscio, mi aveva offerto in cambio un libro di Moustapha Safouan, di argomento simile. Ovviamente, e senza dirle nulla, rifiutai l’iniquo baratto e mi ripresi il mio amato Balint. Michael Balint aveva previsto tutto quello che sarebbe accaduto nei decenni successivi. In quel libro parlava di “intropressione del Super-io”. Secondo lui, il candidato analista (e psicoterapeuta) era talmente oppresso da una formazione che imponeva analisi personale, analisi didattica e lezioni monotematiche, da essere costretto a interiorizzare in modo forzato (“intropressare”) il Super-io dei suoi formatori, in una sorta di plagio psichico che lo lasciava per sempre privo di ogni vitalità personale e di ogni creatività clinica e concettuale.

SafouanAnni dopo volli leggere un testo specifico di Safouan sull’argomento (Safouan, 1987), e mi resi conto che anche lui aveva espresso gli stessi concetti, citando a sua volta Balint. Riferiva Safouan che Balint, già in un articolo del 1947, On The Psychoanalytical Training System, aveva denunciato la collusione tra gerarchia istituzionale e ignoranza. Uno dei sintomi da lui considerati era la ripugnanza degli esperti a mettere per iscritto la loro conoscenza, l’altro era un atteggiamento dogmatico da parte di questi didatti, ignoto in qualsiasi altra sfera della psicoanalisi.

Ebbene quanto previsto da Balint è accaduto ope legis nelle scuole di psicoterapia italiane. Anni e anni di formazione a pagamento (al contrario di quanto avviene agli psichiatri che, già in formazione, vengono accolti nei servizi pubblici e stipendiati dallo Stato), analisi personale con terapeuti interni alla scuola e anni di supervisione con gli stessi docenti fanno di loro dei cloni dei loro docenti, svuotati di ogni originalità. Molti di questi giovani psicologi sono insidiati da inquietudini e ribellioni creative che affiorano appena alle loro menti. Altri ne sono consapevoli e cercano una nuova vitalità psichica e culturale.            

 Bisogna tornare ai classici, agli eroi della clinica, e al metodo scientifico, sorretto da una costante critica filosofica. Gli innovatori sono spiriti inquieti, intrinsecamente scientifici, antitetici rispetto a qualunque dogma il potere costituito voglia imporre. Bisogna amare gli individui creatori e la loro umile storia, proprio perché il potere costituito non li ama. Il potere dominante cancella sempre gli individui che l’hanno creato. Non scava mai nelle loro vite. Coloro di cui parla – i malati – sono i sudditi, i subordinati, ciò che resta dopo la sua azione demolitrice: forme vuote, spogliate di ogni personalità. Il potere dominante non vuole nulla di vivo, di visibile, di perturbante: né eroi né persone; crea la propria casta, poi un sistema piramidale di sotto-caste, infine cancella le tracce del proprio percorso. La sua ossessione è cancellare, sottrarre alla coscienza, negare l’accaduto: fare della Storia una pagina bianca.

A noi psicoterapeuti creativi spetta il compito di scavare nel sottosuolo della società, quindi anche in quello del potere costituito, dove giacciono le storie che sono state soffocate. Non possiamo altro che essere curiosi, irrispettosi, appassionati. Alla psichiatria biologica lasciamo il ruolo di attrice principale di un ordine sociale che crea la malattia. Per questo ci è precluso di diventare istituzioni totali come la psichiatria. 

Purtroppo, come ho detto, molte le società di psicoanalisi, come ormai molte   società di psicoterapia, si sono costituite non solo come scuole istituzionali, ma anche e soprattutto come istituzioni totali. Per accedere a una di esse si chiedono al candidato due o tre colloqui con esaminatori il cui numero può arrivare fino a quattro, per assicurarsi che il candidato non abbia “controindicazioni” ad essere un analista; dai quattro ai sei anni di corso formativo; analisi personale interna alla scuola; analisi didattica; supervisioni. A tutto ciò, possono seguire altri tre anni di ulteriore super-formazione. Tutto all’interno della stessa scuola. Un conto salato, sia in termini economici che psichici: chi potrebbe mantenere la propria autonomia morale e intellettuale con un simile pressing? E dopo averlo effettuato, chi avrà mai una mente abbastanza solida e complessa da guarire un paziente? Non a caso la psicoanalisi, almeno qui in Italia, ha cessato da decenni di produrre potenziale euristico e terapeutico. 

Il nostro compito di psicoterapeuti innovativi non potrà essere altro che quello di smuovere il terreno consolidato del “senso comune”, sia sociale che psichiatrico e ormai anche psicoterapeutico. Freud appose al frontespizio dell’Interpretazione dei sogni un verso di Virgilio: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo»: se non potrò essere ascoltato dal cielo, chiederò agli Inferi. 

Il suo spirito continua ad essere quello giusto.    

Bibliografia

Balint M., L’analisi didattica, Guaraldi, Firenze, 1974.

Safouan M., Jacques Lacan e il problema della formazione degli analisti, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1987.