Passioni psicotiche

Progetti oppositivi e crisi dell’identità

Nella cultura psichiatrica corrente, di tipo biologico, la psicosi è considerata una malattia dell’organismo, come una demenza senile o un tumore, e come tale la si ritiene irreversibile. Nella cultura psicoanalitica ortodossa ha dominato per lungo tempo l’assioma freudiano di un narcisismo primario irriducibile che renderebbe la psicosi del tutto inanalizzabile: da qui l’esclusione dall’ambito della cura. La rottura con questi assunti è avvenuta dapprima grazie a C. G. Jung, che ha rivendicato la curabilità della psicosi a partire da un paradigma che rende più complesso il concetto stesso di natura umana; poi grazie all’antipsichiatria metapersonale di R. D. Laing, che ha rimesso in discussione le stesse categorie di normalità e di follia.

Secondo Ghezzani, che interpreta la psicosi alla luce della psicopatologia dialettica, non c’è psicosi senza un soggiacente progetto passionale. Progetto inteso all’amore di sé, all’amore del proprio Sé. E insieme progetto a tal punto oppositivo nei confronti dell’ordine sociale interiorizzato da venire inibito e bloccato dalle dinamiche della colpevolizzazione interna, restando così avulso dalle “parole per dirsi” e dunque da una sua concreta collocazione nel quadro chiarificatore e risolutore della storia.

Tre storie di donne (due cliniche ed una documentale: Teresa d’Avila) compaiono nel libro a punteggiarne la tesi: psicosi e isteria; psicosi e donna: l’ascolto partecipe di una doppia “debolezza” rivela così, nel corso dell’analisi, la natura profonda ed emergente di una doppia e tenace opposizione.