La vita impetuosa e suicida di Ernest Hemingway

Un padre e un figlio

   Hemingway-famiglia-705x528 Quanto conta nella vita di un individuo la morte di un genitore per suicidio?

Clarence Hemingway, padre di Ernest Hemingway, era un uomo molto depresso e un giorno si suicidò con la pistola del padre, una gloriosa Smith & Wesson. Lo fece in un momento particolare. Era il 1928 e si era alle soglie di quel fatidico 1929, l’anno della grande crisi finanziaria nella quale molti altri uomini – imprenditori falliti e lavoratoti disoccupati – si suicidarono a loro volta. Fu un anno funesto, durante il quale una parte dell’umanità si risvegliò delusa dalla futilità dei propri sforzi e insidiata dall’angoscia d’essere stata tradita. A questi eventi pubblici, Clarence Hemingway aggiunse accadimenti privati che lo avevano ferito e turbato. Il suo secondogenito Ernest (il futuro scrittore, nato nel 1899) lo aveva attaccato e denigrato più volte: non mancava occasione per dimostrargli il suo odio. Inoltre, proprio in quel periodo di crisi mondiale, la moglie Grace s’era messa a dipingere, abbandonando il remunerativo insegnamento della musica e lasciando per intero la responsabilità della numerosa famiglia sulle spalle di lui. Arrabbiato per questi voltafaccia e angosciato dalla crisi economica e dal crollo della sua antica posizione sociale, l’uomo non resse allo sconforto. Si era sentito da sempre un membro privilegiato di Oak Park, cittadina “aristocratica” dell’Illinois, e visse la decadenza della famiglia di cui si sentiva responsabile in uno stato d’animo ansioso e paranoide. E alla fine si sparò. Lo fece con la pistola del padre, dunque eseguendo una condanna per indegnità che veniva da lontano.

Ernest_Hemingway_1923_passport_photo-450x600Ernest quando il padre si suicidò aveva 29 anni e, avendolo attaccato sin da ragazzo e poi abbandonato con disprezzo, visse sempre col dubbio di essere in parte responsabile della sua morte1. Nondimeno, visse ripetendone gli stessi errori. Impetuoso e orgoglioso, nonché egocentrico ed ambizioso, ebbe quattro mogli e tre figli per i quali indebitò ogni suo guadagno; in più dovette contribuire al mantenimento della madre, di due sorelle e un fratello, fino a ritrovarsi più volte sull’orlo del collasso economico e del crollo dell’autostima.

A questo dato semplicemente oggettivo dovette aggiungersi un oscuro sentimento di colpa. La consapevolezza di possedere un talento straordinario, gli fece nascere in cuore uno smisurato orgoglio e questo a sua volta una fame di successo che lo portò a tradire innumerevoli legami, legami d’amore e d’amicizia, come accadde con le mogli e con amici generosi e fidati. 

Ad ogni passo della sua vita, ci fu un tradimento. E questo la sua anima sensibile non poté non memorizzarlo. Egli era grande, orgoglioso e colpevole. L’angoscia di fallire – che lo assediò di continuo – faceva eco al bisogno inconscio di punire una vita vissuta all’insegna di un tracotante bisogno di grandezza.

Per quanto ripudiata, l’ombra del padre, orgoglioso e ferito, tornò così a incombere su d lui. 

Una vita scontrosa

Con la sua famiglia, Ernest agì subito da duro. La ripudiò, in particolare il padre, di cui rifiutò il perbenismo classista e razzista tipico di Oak Park. Da bambino, Ernest amava giocare coi bambini indiani che vivevano a poche centinaia di metri dalla loro residenza, con palese e precoce sprezzo degli ammonimenti paterni. Sentiva intrappolato il suo spirito arioso e libero e reagiva di conseguenza. Abbandonò tutti giovanissimo e si dedicò ad una “professione” che suscitava la perplessità, quando non l’aperto biasimo, dei genitori. 

ernest_hemingway-box-705x529Questa durezza individualista e machista ritornò poi nel rapporto con le donne. Esemplare il rapporto con Hadley, la prima moglie e madre del primo figlio, che lui tradì con un’amica comune, Pauline, imposta in un singolare ménage à trois, noto a tutti gli amici. Non gli bastò: il tradimento divenne una sua cifra esistenziale. Lasciata Hadley per Pauline ripetette la forma del triangolo sentimentale, questa volta a danno di Pauline, divenuta sua moglie e madre di due figli, allorché volle come amante un’altra giovane donna, Jane Mason. Jane, lasciata dopo che ebbe effettuato un goffo tentativo di suicidio, si vendicò. Fornì al suo psicoanalista, Lawrence Kuby, materiale per una ritratto psicologico e biografico che rappresentava Hemingway come un uomo tormentato dal rifiuto da parte delle donne (a cominciare dalla madre) e perciò condannato a strategie compensative: l’ideale dell’Io da superuomo e la ricerca ossessiva del successo. Sfruttato da Jane, Hemingway si sentì sfruttato e messo alla berlina anche dallo psicoanalista Kuby, a sua volta affamato di successo. Si sentì messo a nudo e attaccato; si sentì ferito e s’infuriò. Ma, in un certo qual modo, veniva ripagato della sua stessa moneta: sin da giovane aveva denigrato con la satira o il commento salace e malevolo amici fraterni e solidali come Gertrude Stein, John Dos Passos e Francis Scott Fitzgerald 2

Hemingway-e-Castro-705x397Ma la sua passione del tradimento toccò vertici più alti, quando volle attaccare al cuore gli stessi Stati Uniti d’America. Pur essendo stato da giovane un fiero anticomunista, da uomo maturo e di successo si guadagnò l’odio del governo americano per i suoi contatti “comunisti” – o forse solo “libertari” – con la Cuba di Fidel Castro. Ma fece anche di più: in una famosa conferenza al Carnegie Hall – detestata dall’establishment americano non solo di destra – rievocò l’antico amore per i lealisti spagnoli, perlopiù̀ comunisti, socialisti, anarchici e liberali di sinistra. La diffidenza del governo nei suoi confronti divenne tale che la CIA raccolse su di lui un corposo fascicolo di indagini mai del tutto archiviato. 

Perché́ lo scrittore più famoso e amato degli Stati Uniti d’America si rivoltò contro il suo Paese? Con l’aperta simpatia per i movimenti comunisti, Hemingway esprimeva un confuso rancore in cui confluivano molti elementi. Almeno uno di questi era politico: pur magnificandosi come lo Stato più democratico del mondo, gli Stati Uniti avevano sfruttato i reduci della prima guerra mondiale facendone manodopera a buon mercato (cosa della quale egli, come reduce di guerra, era stato vittima e diretto testimone). Ma il suo rancore era ancora più personale: mentre gli donava il successo planetario, l’ideologia americana lo invitava a persistere nel suo personaggio da macho, da duro, da ragazzone americano tutto energia ed entusiasmo alla perpetua ricerca dell’approvazione altrui, inibendogli quello spazio introverso nel quale allignavano i sentimenti e i dubbi di uno spirito tragico. 

Con gli anni attaccò anche il suo stesso corpo, prodigiosamente forte, che era stato il basamento delle sue certezze. Nella sua smania di azione, lo espose a incidenti di ogni sorta, ricavandone stressanti malattie e dolori permanenti. Per placare i morsi della delusione morale e delle sofferenze fisiche, abusò di alcol e di farmaci. 

Vinse il Nobel (nel 1954) grazie a una lunga carriera, ma soprattutto per quello smilzo capolavoro che è Il vecchio e il mare. Nel ritratto dell’anziano pescatore cubano la cui gloriosa preda – un pescespada –, agganciata alla barca, viene divorata dagli squali nel viaggio di ritorno verso la costa, Hemingway fece un vivido ritratto della sua stessa anima. Indomito fino alla fine, si sentiva depredato – come il vecchio pescatore cubano – del suo denaro (sottrattogli dalle mogli e dalle tasse) e del suo talento (espropriatogli dal sistema ideologico americano), fino a sentirsi roso dall’interno dal cancro della depressione. 

Infine la sua mente da artista gli fu disfatta dal sistema psichiatrico. Dal 30 novembre del ’60 fino al 22 gennaio del ’61 fu ricoverato nella clinica psichiatrica Mayo, di Rochester, nel Minnesota, dove fu sottoposto ad una batteria di venti elettroshock. La sua memoria fu intaccata e la sua abilità di scrittore distrutta. Tornato a casa, «Hemingway scoprì di non riuscire a lavorare in alcun modo. Il 21 aprile decise di suicidarsi sparandosi col fucile, ma [la moglie] Mary intervenne in tempo e lo scrittore fu sedato e ricoverato in un ospedale locale». Rientrarono a casa il 30 giugno del ’61. Poi «la mattina del 2 luglio, Hemingway si suicidò». Aveva sessantadue anni. «Gli amici ricordano che Ernest trascorreva non solo le mattine, ma intere giornate immobile di fronte alla scrivania. Frustrato, raggelato, terrorizzato dall’idea di non riuscire più a scrivere, l’uomo che viveva per la perfezione dello stile faticava ormai a riconoscere anche il semplice atto fisico della scrittura»3. Così, il suo carattere ribelle non ebbe più modo di chiarirsi a se stesso e di reintegrarsi nel mondo con l’unico mezzo che avesse davvero amato: la scrittura. 

Hemingway-armatoOppositivo in modo sistematico, il suo vitalismo libertario gli si ritorse contro nei termini della lotta dell’uno contro tutti. In fondo, non seppe adattarsi né al quieto godimento del successo, né agli affetti, che pure aveva creato e moltiplicato, e nemmeno riuscì̀ da fare di se stesso quello scrittore tragico e distaccato che era nelle sue corde. La delusione di essersi illuso di un mondo avido e superficiale, ma anche l’accumulo dei sensi di colpa per una vita spesa nel tradire ogni legame, lo portarono infine a spararsi con lo stesso fucile con cui un tempo aveva abbattuto le grandi belve africane. 

In conclusione

In conclusione, Hemingway avrebbe potuto salvarsi se avesse rinunciato ad alcune pretese del suo ideale dell’Io, pervase di un potente narcisismo. Se avesse accettato di essere lo scrittore che era già̀, o di diventare quello che era in cuor suo, non avrebbe dovuto piegarsi alla volontà dell’establishment; se avesse accettato l’amore di una o due donne e si fosse disposto a godere dei frutti di quanto aveva seminato, forse non sarebbe mai crollato nella disperazione. Al contrario, egli si imbufalì contro il sistema americano – che non perdona il tradimento della patria – e scelse donne incapaci di amarlo e che alla fine avrebbe tradito.  

Questo è il percorso che occorre fare per evitare la disperazione assoluta e la tentazione del suicidio: l’Io alienato – in cui si mescolano istanze superegoiche e istanze antitetiche – deve morire al posto nostro; la volontà̀ di potenza – che è un costrutto sociale – deve cedere all’effetto liberatorio dell’accettazione consapevole dei nostri limiti, la quale dà al nostro Io una nuova collocazione. Se il coinvolgimento personale nella vicenda sociale elude lo scontro frontale su un terreno che non è il proprio, l’accettazione dei propri limiti viene acquisita come strumento di differenziazione. Se Hemingway si fosse liberato del fascino della sfida individualista e onnipotente (narcisista), riconoscendosi inadatto al gioco, avrebbe scoperto una diversa e più sottile vocazione. Solo allora, quando ci si libera degli ideali del momento, i limiti si rivelano come caratteristiche differenziali, identitarie e creative di nuovi significati, aperti sull’infinito. 

Ciò̀ che avremmo voluto avere o essere per compiacere gli ideali sociali deve crollare come un castello di carte e scivolare in un abisso vertiginoso. Questo ideale dell’Io deve essere lasciato morire. Solo qui, in questa fitta oscurità̀, può̀ allora cominciare la trasformazione: l’accettazione della nostra reale natura, condivisa infine anche con gli altri, contro le imposizioni tiranniche dei doveri sociali. Superare lo sconforto del fallire significa allora sopravvivere alla propria giovinezza e intravedere nella penombra una luce di vera vita. 

Una nota letteraria

Carl Gustav Jung, in un singolare articolo4, suggerisce che la natura dei continenti modelli i tratti antropologici e fisiognomici degli individui. Fra l’altro scrive: «Gli americani ricevono lo spirito degli indiani, sia esternamente che dall’interno». Gli americani, dice, subiscono ogni giorno l’influsso del loro continente e dei popoli autoctoni che vi hanno dimorato per millenni locali. A dimostrare la sua tesi, evoca l’americano medio che, prosegue, va perdendo vieppiù i caratteri europei originari per cedere pian piano non solo al tipo afroamericano, con cui ha contatti sociali assidui, ma anche al tipo “indiano”, il tipo fisico e psicologico dei popoli americani autoctoni. 

Nel “bianco” americano, continua Jung, si riconosce la risata aperta e infantile del “negro” di origine africana e la sua camminata “larga” e “dinoccolata”; ma anche la struttura fisica forte e audace del guerriero nativo del continente americano, da cui ha mutuato anche un certo temperamento sanguinario, che si riflette, per esempio, nella passione per gli sport violenti 

Su un piano biologico si tratta di un’ipotesi priva di un riscontro scientifico, a meno che non si voglia invocare il rapporto fra ambiente geografico e struttura somatica dei gruppi nel corso di lunghissime sequenze di ere evolutive. Ma sul piano psicologico – e quindi antropologico – l’ipotesi è verosimile. Gli ambienti naturali, modellati dall’uomo, modellano a loro volta gli esseri umani che vi nascono. Come il viso di una madre dà forma all’espressione facciale di un figlio. Memi culturali che si trasmettono da generazione in generazione e da individuo a individuo, piuttosto che geni biologici. 

Melville-450x644Aprendoci un varco fra Herman Melville il cui Moby Dick sembra una saga tragica nordeuropea e Henry James, i cui temi e la cui prosa echeggiano il grande romanzo inglese e francese del sette-ottocento, il padre originario della letteratura americana ci sembra essere Walt Whitman. Col suo Foglie d’erba Whitman disegna d’impeto un paesaggio neopagano che non ha eguali nella letteratura mondiale moderna. L’Uomo, e innanzitutto l’Io, troneggiano immersi in una vita e in una natura prodighe e benigne. Più del suo mentore R. W. Emerson, che è innanzitutto il filosofo stoico dell’accettazione dell’esistere, e di H. D. Thoreau che è in fondo, nonostante il suo ostentato individualismo, il profeta americano del socialismo utopico, Whitman è un guerriero e un mistico di una nuova religione, assorbita per osmosi dallo sciamanesimo indiano. Egli sembra confermare l’assunto junghiano che il continente americano arcaico abbia potuto forgiare la mente dei suoi figli. Ci sono in Whitman, nella sua opera, chiare tracce bibliche: Foglie d’erba è un lunghissimo Cantico dei cantici, ma in esso non domina la coppia innamorata, bensì l’Io trasceso nella natura e invaghito di se stesso. L’io solitario di un mistico guerriero indiano che conosce e ammette soltanto la visione maschile del mondo. 

Per una incredibile e inaudita metempsicosi, in Whitman rinasce l’animismo dei nativi americani. Eroismo dell’Io e animismo della Natura – e del gesto “spontaneo” – che ritroviamo poi in tutti i grandi scrittori della linea letteraria americana più originale, da Mark Twain a Ernest Hemingway a William Faulkner fino a Henry Miller e Jack Kerouac, che potremmo includere in una corrente del vitalismo virile americano separandoli dalla corrente, non meno importante e numerosa, del realismo sociale.

Ernest Hemingway nasce all’interno del blocco del vitalismo virile e ne è uno dei suoi maggiori esponenti. Anzi, nella coscienza popolare mondiale è senza dubbio il più ricordato: più di Mark Twain che resta uno scrittore americano; più di Jack Keroauc, la cui opera è confusa nell’amalgama della beat generation. In Hemingway rivivono i miti americani e nativo-americani della guerra, della caccia e della pesca, della solitudine fra uomini, della libertà individuale, della prova virile e della morte gloriosa. 

Ed è per la riedizione moderna di questi miti che il mondo lo ama e lo ricorda. 

 

Nicola Ghezzani

Psicologo clinico, psicoterapeuta

formatore alla psicoterapia

Contattalo con un messaggio su WhatsApp al 333 999 4797

o per e-mail: nic.ghezzani@gmail.com

Indirizzo Skype: nicola.ghezzani.psicologo

  1. Secondo una testimonianza di uno dei figli di Ernest, Gregory Hemingway, la rivoltella con la quale si uccise il nonno Clarence venne recapitata l’anno successivo a Parigi al giovane Ernest come regalo di compleanno: pensiero gentile di sua madre. «Ho impiegato vent’anni a inghiottire la morte di mio padre», disse una volta lo scrittore, «non riuscivo a considerarla come possibile»
  2. Nel dicembre del 1940, Scott Fitzgerald morì a soli 44 anni per un attacco cardiaco e, da allora, Ernest vide accentuarsi il suo antico timore della morte. Difficile non vedere in questo sintomo ipocondriaco il segno di un senso di colpa inconscio, che andava a sommarsi a quello già poderoso nei confronti del padre morto suicida.
  3. Wagner-Martin L. (2007), Ernest Hemingway. Una vita da romanzo, Alberto Castelvecchi Editore, Roma, 2011, pp. 253-254.
  4. Jung C. G. (1930), Psicologia americana, in Opere, vol. 10, Tomo I, Bollati Boringhieri, Torino 1985.