Il disturbo ossessivo compulsivo

Rituali e piccole manie. Il comando inconscio

insonneCiascuno di noi sa di avere certe piccole manie. Le ha, ma non ne parla: per pudore o per semplice automatismo. 

Vediamone qualcuna. 

Ecco un uomo che prima di andare a dormire compie i suoi soliti riti: in cucina ruota con cura la maniglia del gas per sincerarsi che sia chiusa; poi va al portoncino d’ingresso, infila la chiave e la gira nella toppa tre volte; nella stanza dei bambini sistema i giocattoli in un certo ordine rigoroso; prima di distendersi a letto sistema le sue scarpe parallelamente l’una all’altra. Una volta a letto, ripensa un attimo ai gesti compiuti e solo se questi sono stati eseguiti alla perfezione (cioè senza alcuna variazione rispetto ad uno schema preordinato) riesce infine ad addormentarsi. Si tratta di piccole manie del tutto innocue, di cui infatti si parla poco. In effetti, esse ci affliggono e tuttavia preferiamo fingere di ignorare la loro sottile tirannia. Sono per noi ovvie e abituali. 

Fin qui siamo nell’ambito della normalità. 

La stessa parola “normalità” fa riferimento alla “norma” come al suo fondamento imprescindibile, quindi anche a un codice di comportamento – cioè un sistema di obblighi morali –, che è sia collettivo che individuale. Questo codice è tanto collettivo quanto individuale, cioè assimilato dalla coscienza morale soggettiva, perché nessuna norma collettiva può diventare maggioritaria, quindi dare fondamento alla normalità, se non in quanto fa presa sulla personalità individuale. Se la maggioranza di una popolazione non si attenesse a un codice morale comune, non vi sarebbe nemmeno la possibilità di esistenza di una società. Se tutti passassimo col semaforo rosso, non vi sarebbero né un codice stradale né una relativa sicurezza di circolazione sulle strade; se tutti avessimo il diritto di riprodurci con tutte le donne e tutti gli uomini, non esisterebbe né coppie né famiglie. Ma in che modo avviene questa presa del codice morale collettivo su ciascun individuo? Ebbene, la presa del codice sulla singola persona avviene attraverso quel sentimento di intima necessità che chiamiamo senso di responsabilità. 

Dunque, non esiste una normalità senza un codice di comportamento, più o meno visibile e più o meno restrittivo, che non implichi il senso di responsabilità. 

Ogni essere umano è chiamato a rispondere di un codice morale di comportamento attraverso l’appello imprescindibile al suo senso di responsabilità. La sua stessa identità dipende dall’integrazione più o meno efficace di questo senso di responsabilità nella sua mente, conscia e inconscia. Se il codice morale è partecipato e il senso di responsabilità è soddisfatto, siamo nell’ambito della salute; se è interferito da emozioni contraddittorie, siamo nell’ambito di una blanda, ma pur sempre normale, insofferenza. Esiste una normalità asintomatica, ma anche una normalità sintomatica, afflitta da piccoli turbamenti. Le piccole manie che talvolta appaiono nella vita di tutti sono lievi forme coercitive intrinseche al senso di responsabilità, e hanno la funzione di ridurre la ridondanza, di venire a capo della possibile irrequietezza soggettiva. Se l’uomo del nostro esempio recalcitra a sentirsi parte calda e attiva della famiglia che egli stesso ha amorevolmente formato, gli appariranno alla mente dei comportamenti obbligati che attestino la sua partecipazione a quel sistema. Ricordarsi il compleanno della moglie o di un figlio, portare lo stipendio in casa senza prendere niente per sé, insegnare le parole ai bambini più piccoli e il rispetto della buona educazione a quelli grandi. Queste abitudini, che sono anch’esse piccoli riti, attestano la partecipazione del singolo individuo al codice morale della sua società. Lo stesso vale per obblighi meno consapevoli, che si manifestano come abitudini inconsce, idiosincrasie e piccole manie. 

Finché i riti vengono eseguiti non appare alcuna ansia, né tanto meno senso di colpa. Le norme a cui fanno riferimento restano invisibili nella misura in cui non vengono infrante. 

Disturbo d’ansia e disturbo ossessivo

angstMa poniamo che uno dei compiti rituali prescritti non sia stato eseguito alla perfezione: cosa può accadere a questo punto? Nella maggior parte dei casi, si manifestano segni di ansia: un’improvvisa inquietudine, un nervosismo irrazionale e la sensazione che, senza l’esecuzione del rito, lo stato d’animo non possa acquietarsi. In una percentuale non irrilevante di casi (circa l’8, 10% della popolazione globale) i sintomi sono insistenti e, qualora si trovino ad essere interferiti e inibiti, da situazione che la persona non può controllare, si traducono in repentine irruzioni di panico. C’è dunque una seria distonia fra il codice morale collettivo e la pulsione soggettiva; distonia che può essere invisibile (inconscia) al soggetto stesso e che induce in lui quel segnale di allarme che chiamiamo “ansia”. 

In questi casi siamo di fronte a un disturbo d’ansia, un livello più elevato nella gerarchia delle patologie della mente. Nel sintomo ansioso traspaiono sempre i segni di una fobia (cioè di una paura specifica): fobia delle malattie, della follia, della morte, della criminalità, delle situazioni pericolose, degli animali, degli insetti, dello sporco, dell’immorale, ecc. Già a questo livello, la fobia ha come possibile oggetto del danno sia la persona stessa sia i suoi cari, e in questo caso spesso se stesso come veicolo e strumento del danno. Per esempio, una fobia igienica dello sporco può dipendere tanto dall’angoscia di contrarre un’infezione e di subirne le conseguenze, quanto soprattutto di trasmetterla ai propri cari.  

Ma la spirale del vortice psicopatologico sale sempre di più, come la fiamma di un incendio in una termica. Un’altra voluta ed ecco che, salendo lungo le spire del vortice, troviamo altri casi (i casi affetti da quella sindrome che classifichiamo come DOC, Disturbo Ossessivo Compulsivo, che coincidono con una percentuale globale del 5, 6%) nei quali la situazione psicologica si aggrava ancora di più. Ecco allora che non solo il nostro uomo non riesce più a dormire; ora è tormentato dall’angoscia di una colpa personale insondabile, che va ben oltre il pericolo paventato dal rito. Ha finto con se stesso di poter fare a meno di quel gesto rituale, ha finto di esserne libero; ma di fatto una forza implacabile lo tiene sveglio, lo inquieta, lo angoscia, lo terrorizza, lo domina. Una volta si sente colpevole di non compiere il rito; un’altra vota la colpa si materializza e ha improvvise fantasie nelle quali il danno avviene: egli immagina, anzi “vede” nel teatro della mente una banda di rapinatori che entra in casa e uccide i suoi cari, oppure un’esplosione delle condotte del gas, che distrugge l’appartamento. Ormai, neanche se si rassegna ad obbedire al comando e a completare il rito, riuscirà recuperare la calma e con essa la pace del sonno. Le impulsioni della fantasia lo tormentano, tanto che non riesce più a capire se lo spaventino o se piuttosto lo delizino.   

Che cosa è accaduto nei casi caratterizzati dal disturbo d’ansia e dal disturbo ossessivo? Che cosa ci ha rivelato la forza inflessibile di quella misteriosa coercizione? Di fatto, quell’uomo deve obbedire a un comando invisibile. Questo comando è una compulsione: un impulso poderoso e incontrovertibile, fuori del controllo volitivo e razionale soggettivo. È dentro di noi, nella nostra mente, e tuttavia non è sotto il controllo della nostra volontà. Ci domina. Se ci opponiamo ad esso ne usciamo sistematicamente sconfitti. 

Esistono infinite forme di comando intrapsichico compulsivo, tante quante la fantasia umana può immaginare. Le più frequenti sono intese a scongiurare le situazioni di pericolo che implicano la messa in gioco dell’incolumità fisica propria e altrui; altre riguardano l’igiene e servono a evitare il rischio di contagio, altre a sincerarsi della propria identità psichica e morale, talvolta della propria stessa umanità; altre a sorvegliare minacce ancora più irrazionali, ecc. 

La differenza fra la comune normalità (che non necessariamente coincide con la salute) e la patologia sta qui. La persona normale vive all’interno di una rete di vincoli morali più o meno visibili dentro la quale è a suo agio e che non sente il bisogno di trasgredire. La persona affetta da un sintomo psicopatologico è andata oltre: vive nel terrore di infrangere una norma morale più o meno razionale, terrore che gli si presenta nella forma di ossessioni, sicché s’infligge atti coercitivi – le compulsioni – intesi all’evitamento o alla riparazione dell’evento trasgressivo. 

Ecco cosa dice al riguarda il Manuale Diagnostico Psicodinamico del 2018, PDM2: «Il nucleo psicopatologico dello spettro del DOC è ben noto e facilmente descrivibile. Le “ossessioni” sono pensieri, impulsi o immagini ricorrenti che irrompono nel funzionamento mentale della persona che ne è affetta; le “compulsioni” sono azioni osservabili, attività mentali, o comportamenti ripetitivi che il paziente esperisce come “obbligatori” e che interferiscono significativamente con il suo funzionamento, con una gravità che varia ampiamente tra i diversi pazienti e, nello stesso paziente, nel corso della vita».1 

Con la compulsione siamo dunque passati, inesorabilmente, dall’abitudine delle “piccole manie” al giogo della compulsioni, quindi del “tormento ossessivo”. Il tormento ossessivo dimostra che ciò che sfugge alla nostra volontà e ci domina è un’angoscia catastrofica, un sentimento di minaccia di cui manca una qualunque spiegazione, ossia una rappresentazione cosciente dotata di un significato coerente e intelligibile. Ebbene, a un’analisi appena un po’ più approfondita ci rendiamo conto che, in questo e in altri casi simili, ciò che domina la nostra vita è il senso di colpa. 

Il senso di colpa va qui assunto al suo livello più elementare: la disobbedienza a un comando. Se non obbediamo all’invisibile comando di eseguire il nostro rito, ci sentiamo in balia di forze sconosciute, che ci minacciano di colpirci con un evento devastane, catastrofico; forze che potremmo controllare eseguendo remissivamente – cioè senza opporre obiezioni – gli atti che ci sono comandati. Quindi, poiché non abbiamo obbedito, è colpa nostra se non abbiamo fatto di tutto per placarle. È nostro dovere obbedire, pena un tormento senza fine. 

Perché?

Il senso di colpa e la razionalità del sintomo

donnaombraSe si analizza nel dettaglio il rito da eseguire, ci si accorge che esso ha sempre a che fare con un dubbio: il dubbio di poter causare danno a persone amate e a valori condivisi. Il nostro uomo (che abbiamo appena scoperto essere un ossessivo) deve sincerarsi di aver chiuso la maniglia del gas perché se non l’avesse fatto ciò potrebbe causare la morte dei suoi cari; deve chiudere a tripla mandata la porta perché da lì potrebbero penetrare in casa dei malviventi e danneggiare le persone e i beni di famiglia; deve porre in ordine i giocattoli dei bambini, perché lasciarli nel disordine sarebbe come abbandonare i figli a se stessi.

Il nesso fra la paura e l’evento paventato è in realtà debole, in apparenza irrazionale; eppure la logica emotiva si impone. Il nostro ossessivo avverte un’oscura emozione di colpa: se non controllasse le manopole del gas, potrebbe verificarsi una perdita nel cuore della notte che li ucciderebbe tutti nel sonno; se non si accertasse delle tre mandate della serratura, “qualcuno” potrebbe fare irruzione in casa durante la notte e fare strage della famiglia. E così via. Nessuno di questi casi presenta, almeno in apparenza, un motivo razionale. I fornelli sono spenti e le singole manopole sono chiuse, chiusa è anche la maniglia centrale. E poi perché mai il dispositivo automatico di sicurezza non dovrebbe funzionare? Né v’è un ragionevole motivo per cui la serratura debba essere inchiavata tre volte e non due. Se è ben chiusa, basta che lo sia due volte. Ma questi argomenti razionali non servono a nulla. Bisogna obbedire al rito, la disobbedienza in se stessa sarebbe grave quasi quanto l’evento. Perché la disobbedienza rivelerebbe la ragione intima – quella essenziale – della colpa: la sciatteria morale, l’indifferenza, o persino un sottile, perverso desiderio di catastrofe.   

Solo quando ha compiuto i suoi doveri, l’ossessivo ha soddisfatto il carattere essenziale della compulsione: sincerarsi che il proprio Io sia una cittadella morale inattaccabile, che cioè sia in linea con i valori che ha interiorizzato nel corso della vita. Se ha fatto ogni cosa necessaria a soddisfare i propri requisiti morali di fondo, il nostro uomo è certo di non ospitare in se stesso un pazzo, un delinquente, un irresponsabile. L’idea ossessiva non è affatto folle e irreale (come invece argomentano molte psicoterapie, in particolare quelle comportamentiste, che pretendono di curarla spingendo il paziente a ignorarla), perché non ha per oggetto l’impossibile, bensì il possibile. Con l’idea ossessiva non si è di fronte alla pretesa di controllare il destino: ossia evitare il male in assoluto; ma di controllare ciò che di fatto è controllabile: il proprio stesso Io, la propria moralità, la propria innocenza. 

Il tormento ossessivo, dunque, riguarda sempre l’atroce dubbio morale di essere insensibili al male di persone amate o persino (e ciò è ancora più terribile) di agire desiderando quel male. Il dubbio non riguarda mai un nemico esterno, ma sempre e sostanzialmente il nemico interno. La razionalità del sintomo sta tutta in questa sottile distinzione fra l’evento che si deve scongiurare e la responsabilità soggettiva, la responsabilità dell’Io, a compiere tutto il possibile per evitarlo. Non importa se l’atto rituale non abbia alcuna intelligibile né intelligente relazione con l’evento catastrofico: che relazione ci può mai essere fra stringere nelle mani un amuleto e scongiurare la morte di una figlia malata di leucemia? Questo non lo sa solo il terapeuta (sarebbe imbecille pensarlo), lo sa anche il paziente. Per la mente ossessiva, ciò che conta non è l’efficacia oggettiva del rito, che spesso non ha alcuna relazione con la realtà temuta. Ciò che conta davvero è il sollievo ottenuto in virtù dell’obbedienza; ciò che conta davvero è la disponibilità dell’Io a sottostare a un comando che abbia per oggetto la salvezza di persone amate e di valori condivisi. Dunque, ciò che conta è l’abnegazione dell’Io.  

Preso atto della possibilità dell’Io di abnegarsi per la salvezza dell’altro oppure di rifiutarsi, la coscienza morale (coscienza che la psicoanalisi ha denominato Super-io) ci impone l’esecuzione di rituali che attestino la nostra devozione assoluta, l’obbedienza cieca, ai doveri nei confronti dei quali ci si sente inconsciamente e tuttavia angosciosamente in difetto.

L’esorbitante crudeltà dei sensi di colpa diviene, infine, palese nei casi in cui l’intera vita di un uomo può essere rinchiusa in una prigione di comportamenti rituali imprescindibili. In questi casi, allo scopo di eliminare alla radice la fonte dei sensi di colpa, che è l’ansia di poter scegliere il male piuttosto che il bene, il soggetto ossessivo si chiude in una gabbia di prescrizioni mentali e comportamentali che, nelle sue intenzioni, dovrebbe portarlo infine al totale e tranquillizzante annullamento della sua personale libertà di scelta. Di fatto, la nevrosi ossessiva è divenuta un cancro mentale che ha parassitato l’intera esistenza dell’Io.  

La terapia

christian-schloeIn casi molto gravi è plausibile pensare all’ausilio di psicofarmaci; ma la via terapeutica più adeguata è la psicoterapia. La psicoterapia non può essere una rieducazione comportamentale, perché a questa si oppone la resistenza morale dl soggetto stesso. 

Il sintomo ossessivo implica un’inflessibile responsabilità morale nella misura in cui esso ha sempre alla sua base l’angosciosa sensazione di ospitare dentro di sé un pazzo, un delinquente, un mostro. Posto ciò, come potrebbe esso venire sconfitto dall’invito a distrarsi, a svuotare la mente, a concentrarsi su altro e a dimenticarlo? Anche quando l’angoscia sembra riguardare il mondo esterno e, per esempio, si ha il terrore di contagiare i propri cari con una malattia contratta per caso all’aria aperta, avendo respirato germi o avendo sfiorato oggetti contaminati, anche in questo caso il punto focale dell’idea ossessiva non è la malattia in se stessa, ma la propria condotta negligente e irresponsabile. Infatti l’attenzione ossessiva si focalizza sull’obbedienza con la quale si praticano i comportamenti scongiuratori: l’attenzione ai luoghi e alle persone che si frequentano, i lavaggi delle mani e la disinfestazione degli oggetti d’uso ecc. Questi comportamenti non hanno il fine di sconfiggere tutti i mali del mondo, che sono infiniti, ma la propria irresponsabilità. 

Impossibile, per l’ossessivo, dimenticare o anche solo evitare questo incessante martellamento sulla qualità della propria identità morale e l’onnipresente ansia che qualcosa di orribile si celi nei meandri più bui della propria personale coscienza. 

La terapia dovrà consistere soprattutto nell’analisi del “nodo ossessivo”, il quale è composto di desideri inconsci, angosce di colpa e paralisi del pensiero e dell’azione indotta dai sintomi. 

Nella psicoterapia occorrerà considerare il significato più intimo e sostanziale dei desideri inconsci e quindi la ragioni di fondo dell’attribuzione a se stessi di una colpa impensabile. Quindi occorrerà collocare quei desideri in un ambito di pensabilità e praticabilità, nei limiti della morale soggettiva e dell’individuazione che vi è collegata. 

Poiché è il soggetto stesso che stringe i capi del nodo e non intende mollarli, è sempre e solo dall’interno della sua soggettività che può avvenire la guarigione. Il terapeuta ha il compito di spiegargli di cosa ha paura e aiutarlo ad allentare e infine sciogliere il nodo dell’angoscia.  

Nicola Ghezzani

Psicologo clinico, psicoterapeuta

formatore alla psicoterapia

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Indirizzo Skype: nicola.ghezzani.psicologo

  1.  Lingiardi V., McWilliams N., (2018) PDM-2. Manuale diagnostico psicodinamico, Raffaello Cortina Editore, Milano.