Derealizzazione, depersonalizzazione e funzione dissociativa

La funzione dissociativa

Sirena mareChi di noi non ha avuto una vecchia zia piccolo-borghese piena di insopportabili pregiudizi? Una di quelle signore schifiltose e un po’ altere che vede un giovane coi capelli lunghi e un piercing all’orecchio e pensa sia un gay e vede un signore africano vestito bene e gli chiede di portarle un cocktail; la stessa simpatica signora che vede un’amica del nipote fra gli esercenti di un bar un po’ chiassoso e comincia a parlare di lei come di una “drogata”. Ebbene, con la “dissociazione psichica” la psichiatria occidentale si è comportata esattamente come questa vecchia zia piccolo-borghese.  

Il fatto che i primi a osservare e descrivere i fenomeni dissociativi siano stati neurologi e psichiatri di formazione positivista ne ha gravemente condizionato l’interpretazione. La cultura positivista in psichiatria ha supposto che i fenomeni automatici della mente coincidessero sempre con anomalie della struttura organica, quindi con neuropatologie e psicopatologie.

Una prima consapevolezza della dissociazione si ebbe nel corso del XIX secolo in sede di neurologia clinica. In seguito a incidente ferroviari, il medico constatava che alcuni pazienti presentavano una completa “amnesia dissociativa”. Il paziente non ricordava nulla dell’accaduto. J. E. Erichsen elaborò la categoria diagnostica di railway spine, con sintomi che includevano perdita di memoria in assenza di segni visibili di lesioni o infortuni. L’ipotesi era che l’amnesia (sintomo mentale) fosse correlata allo shock fisico: il trauma dell’incidente doveva aver generato un danno neurologico invisibile e il conseguente sintomo psicologico. In questa concezione, la mente non poteva presentare un funzionamento anomalo se non in quanto il cervello, l’organo, era stato colpito da un trauma, e quindi danneggiato.

Secondo questa mentalità, tutti i funzionamenti mentali che discordano dall’adattamento alla realtà immediata sono da considerarsi come patologie. Sin dai tempi di Pierre Janet, la psichiatria ha parlato della dissociazione come di un fenomeno gravemente patologico. L’idea di fondo era che la dissociazione fosse di per se stessa una disfunzione neurologica o psichica. Nella versione moderna, essa è diventata addirittura sinonimo di personalità multipla e di psicosi schizofrenica. Un errore a 360 gradi, che soltanto una mentalità fobica ha potuto compiere, una mentalità terrorizzata dall’esistenza stessa di fenomeni mentali autonomi dalla coscienza.

Dal mio punto di vista, diverso da quello della zietta piccolo-borghese di cui sopra, per capire fino in fondo cosa sia la dissociazione dobbiamo imparare a ragionare in termini di funzionalità ottimali. In assenza di danni organici, tutto ciò che la mente produce – sintomi psicopatologici compresi – risponde a un funzionamento ottimale; funzionamento che la coscienza, incapace di dialogo intrapsichico, non sa leggere come tale. Quindi la dissociazione, nonostante gli effetti possano in molti casi essere perturbanti, va intesa come funzionamento ottimale, non come una dinamica mentale patologica.

Personalmente, preferisco parlare di un fenomeno psicologico più vasto, che chiamo “funzione dissociativa” (o “funzione selettiva”), una funzione psichica naturale che può essere adoperata – in modo inconscio e automatico – sia per usi difensivi che per usi creativi. La funzione dissociativa è uno strumento intrinseco della mente umana, presente in una molteplicità di fenomeni psichici funzionali e talvolta essenziali, di cui l’uomo fa uso da quando esiste il mondo.

La selezione del superfluo

Li Guijun 1In termini generali, la funzione dissociativa è un aspetto della normale attività di selezione e concentrazione emotivo-cognitiva. Per capirla, dobbiamo partire dal suo funzionamento più naturale. Se per esempio siamo immersi nell’ascolto di una musica intensa e appassionante, oppure nella soluzione di un arduo problema di matematica, se stiamo facendo un disegno impegnativo, la coscienza tende a respingere ai suoi margini tutto ciò che non concerne il compito. Altri esempi: siamo in una conversazione futile e noiosa o in un frastuono fastidioso, può accadere che la nostra mente sospenda, ossia dissoci, il segnale acustico; la nostra coscienza si isola in una bolla di silenzio, spostando la conversazione o il rumore molesto su uno sfondo indistinto. Qui vediamo come la dissociazione sia una mera funzione d’ordine, il cui scopo è limitare, selezionare e focalizzare l’accesso delle emozioni (perlopiù inconsce) alla coscienza, che ne potrebbe essere tanto stimolata quanto perturbata. Un meccanismo di gating, dunque, che amministra la selezione e il passaggio di contenuti inconsci, in questo caso emotivi, alla coscienza.    

La sua funzione positiva è altresì messa in luce da fenomeni ad alta intensità emozionale come l’estasi, l’entusiasmo e la creatività. In questi fenomeni un’emozione (o un fascio di emozioni concordanti) viene ammessa alla coscienza alla scopo di renderla edotta di nuovi significati emergenti.

Le esperienze estatiche sono caratterizzate da un’intensa alterazione della percezione che l’Io ha di se stesso, sia sul piano somatico che psichico: di fronte a un tramonto o a un cielo stellato possiamo perdere i confini dell’Io e fonderci con la scena. In questo caso, il superfluo viene espulso e l’Io si immerge – e quasi si annulla – nell’esperienza in atto. Lo stesso accade nell’innamoramento, nell’amore intenso, nell’orgasmo e nell’esperienza mistica. La capacità cognitiva si riduce e s’impone l’esperienza emotiva. In parallelo, la realtà ordinaria scompare e si è di fronte a qualcosa di totalmente nuovo. In questi casi, la funzione dissociativa non coincide con una difesa, al contrario essa comporta un’intensificazione dell’esperienza, la ricerca di un’immersione in essa. Eventi rivelatori si oppongono alla memoria operativa e mettono in crisi l’Io; ma è una crisi salutare. Mentre la memoria operativa “ferma” il mondo con i costrutti logici e il linguaggio, cioè con le frasi e con le parole che definiscono gli eventi e le cose (emisfero sinistro); nell’estasi la funzione dissociativa sospende il rapporto fra emozioni, parole e cose, e consente la creazione di nuovi significati (emisfero destro). L’estasi favorisce la fusione con l’infinto, quindi la sconnessione dal significato ordinario.

Qualcosa di simile e inverso avviene nell’entusiasmo: anche in questo caso, in preda a un’intensa gioia per la partecipazione a un evento meraviglioso, l’Io defocalizza il mondo e si concentra solo sull’esperienza di un se stesso infinitizzato. Nella creatività, infine, un “oggetto mentale” viene dissociato dalla catena di nessi logici abituali e accostato a un altro “oggetto mentale” (emozione o simbolo) cui è stato imposto lo stesso trattamento; l’unione fra i due “oggetti” è un evento insolito e, se svela qualcosa, è creativo.

In tutti questi fenomeni (che sono davvero tanti: estasi, innamoramento, orgasmo, religiosità, flow, movimenti di massa, fusione con la natura, entusiasmo, creatività ecc.) la “funzione dissociativa” genera una sconnessione – una dissociazione – da vecchi significati e un’apertura su nuovi significati. Per questo motivo preferisco parlare di “funzione” dissociativa, perché il concetto implica appunto un funzionamento, che include sia la chiusura, cioè la difesa, che l’apertura, cioè la proazione.     

Io stesso ho raccontato nei miei libri che prima di sperimentare la derealizzazione, che mi turbò molto, per circa un anno ebbi esperienze di estasi, cioè di dissoluzione parziale dell’Io in un ambiente gradevole. Ma sono convinto che l’esperienza estatica fosse favorita dalla mia attività creativa (pittura, poesia, narrazione, riflessione filosofica), in cui la mia mente scindeva abitualmente significati ordinari per dare luogo a significati extra-ordinari. 

Fin qui “tutto funziona per il meglio”; tutto si gioca fra aperture emotive e nuovi significati. Nessuna “malattia mentale”, dunque; nonostante quello che possa dirne la vecchia zietta piccolo-borghese, la psichiatria.

La selezione del minaccioso

andrea kowchLa dinamica dissociativa può incrementarsi e intensificarsi in situazioni di allarme, anche lieve: se ci accade di assistere a una scena inquietante o scioccante, la nostra attenzione può distogliersi e astrarsi oppure l’emozione può essere congelata e attutita. Aumentiamo ora il grado di pericolo. Siamo coinvolti in una situazione minacciosa che ci impone la massima attenzione: cosa accade? Per esempio siamo in un bosco dove è appena scoppiato un incendio, oppure ci troviamo nel bel mezzo di un incidente stradale o ci troviamo coinvolti nostro malgrado in una rissa in un locale o in scontri fra tifoserie allo stadio, oppure, ancora, siamo travolti da una folla in preda al panico. Come reagisce la nostra mente? I nostri sensi si allertano di colpo, osserviamo la scena in una sorta di lucida iper-realtà. Siamo vigili e pronti a scattare, a reagire o a fuggire. Solo la scena pericolosa è ben focalizzata, il resto è superfluo e ridondante e viene dissociato. Scompare ai margini della coscienza. In questo caso la funzione dissociativa ha lavorato come una difesa: perché in gioco c’è l’emozione di allarme e il sentimento di un pericolo. Agisce così in tutte le situazioni registrate come pericolose sulle quali possiamo intervenire. 

Ma ci sono altrettanti casi nei quali la reazione è per qualche motivo impossibile e la mente deve salvare il salvabile. In questi casi accade il contrario: l’Io non può agire, è messo in una condizione di impotenza, la realtà assume un aspetto traumatico. Cosa accade allora? Ebbene, in questo caso la realtà traumatica viene fatta scomparire, perché non c’è altro modo per difendersene. «A mali estremi, estremi rimedi» si dice. Anche in questo caso, partiamo dall’esempio più citato: un soldato assiste a una strage di civili; in principio prova orrore; ma lui è dalla parte dei massacratori. Cosa fa allora la sua mete? D’un tratto la sua mente si dissocia e l’azione si svolge come in un film: lui è lì, ma ogni cosa accade in modo freddo e impersonale. I personaggi so distorcono, assumono le sembianze di demoni e vittime, c’è qualcosa di orribile, ma anche di irreale, e lui non prova più niente. Un altro esempio. un bambino o una bambina o una persona inerme subiscono un abuso sessuale: la loro mente si dissocia dal corpo, si solleva fuori dalla scena, e lascia che l’evento accada in completa assenza di emozioni.    

In questi casi di grave pericolo personale, sia fisico che morale, nei quali il soggetto non ha modo di reagire, la funzione dissociativa diventa un difesa. Una volta attiva, essa ci mette nella condizione di osservare la situazione con un distacco gelido, come fossimo da un’altra parte, o come fossimo fantasmi invisibili e corpi intangibili. Possiamo sentirci totalmente estranei alla vicenda, come se questa non riguardasse né il nostro Io né il nostro corpo. In tutti questi casi, si tratta di una dissociazione di materiale perturbante, inquietante, che viene allontanato dalla coscienza allo scopo di mantenere l’equilibrio e la possibilità di salvare il corpo o la mente.

In sintesi, la funzione dissociativa diventa una difesa quando protegge l’Io o dall’intrusione di contenuti inaccettabili che possono squilibrare l’assetto mentale e condurre al caos.

In termini generali, dunque, la dissociazione è una funzione della mente che amministra il rapporto dell’Io con la realtà. Talvolta la realtà è da inibire per il suo potenziale di pericolosità; talaltra è da esaltare per il suo potenziale di fascinazione e di creatività.

Per risolvere il sintomo dissociativo occorre saper cogliere entrambi i versanti: la difesa dall’intrusione di un significato persecutorio e la potenzialità creativa di nuovi significati.  

D’altra parte, non c’è dubbio che noi notiamo la dissociazione soprattutto quando è collegata a fattori drammatici. Come ha scritto Primo Levi in “I sommersi e i salvati”: «Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il “noi” perdeva i suoi confini». Qui l’elemento persecutorio del campo di concentramento e la minaccia di annientamento spiegano l’utilizzo della difesa dissociativa.  

Riporto di seguito una mail-testimonianza inviatami da una lettrice (che poi divenne una mia paziente), nella quale può essere agevolmente decifrato il rapporto fra derealizzazione dissociativa, sentimento di minaccia e creatività. Riporto di seguito anche la risposta che le inviai. 

La testimonianza

Li GuiJun 2Gentile dottor Ghezzani,

ho letto i suoi libri sulla Derealizzazione e la Depersonalizzazione. Li rileggerei entrambi altre mille volte, perché sento di aver finalmente trovato quella spiegazione valida in cui mi riconosco. Provo a spiegarle il mio percorso, sperando che sia nel suo interesse sapere di quale brutto labirinto lei mi ha fornito le indicazioni per uscire.

Ricordo che la prima volta in cui mi è capitato di sperimentare uno stato di coscienza del tutto insolito, è stato a seguito dell’uso di sostanze allucinogene. Contrariamente alle dicerie, non ho avuto nessun tipo di visione strana o allucinazione; al contrario era come se vedessi tutto più chiaro. Cominciai a sentirmi “sana” interpretando la realtà circostante come un sistema costruito, finto e privo di senso. Fu allora per la prima volta che cominciai a vedere i mille significati delle cose, la loro futilità o la loro bellezza. Mentre ammiravo la realtà da questa caratteristica prospettiva, esploravo anche me stessa nei miei movimenti come se per la prima volta mi fossi resa conto di avere un corpo dipendente dalle mie decisioni.

Dopo quel primo episodio ho fatto sempre più caso alle mie riflessioni personali, che mi hanno condizionato fortemente nei rapporti con i miei amici e con il mio partner.

Tutt’oggi mi capita di pensare a ciò che sto pensando e di perdere d’un tratto il contatto con la realtà, come se essa non mi appartenesse, come se fosse sbagliata. 
Solitamente porto sempre un quadernetto con me. Ho scritto cose del tipo: “fuori dal mondo, rinchiusa in un mondo”, “l’uomo di natura è predisposto a rincorrere ciò che gli manca… Ma se la sua memoria fosse fatta di sole mancanze?”, “Persa nei flussi dello spazio, il tempo più non mi spaventa, / se abbandono ogni schema più nulla mi tormenta. / Nel buio, la sera, le scie dei colori / mi spingono e mi entrano e mi mordono intera”, “Diventi adulto quando cominci a pensare solo per opportunismo. L’impegno lavorativo, familiare, matrimoniale imprigionano i tuoi impulsi fanciulleschi in strutture di pensiero fisse. La dinamicità dei sogni del bambino trasforma la realtà che lo circonda. Quando il bambino smette di essere bambino, inconsciamente abbandona le sue potenzialità per il desiderio di oziare”. “Io sono me stessa o quella che credo di essere?”

Queste sono solo alcune delle riflessioni in cui mi perdo quando mi distacco dalla realtà e adotto una chiave di lettura che spesso mi spaventa… poiché mi sento incompresa da chi sta con me. Ci sono delle volte in cui mi chiedo cosa sto facendo… ma continuo a farlo pur di non perdermi totalmente… mi sento spesso a disagio. Non so cosa dire, alcuni discorsi, alcune tematiche mi sembrano superate dal senso di nullità… forse è solo mancanza di qualcosa. Penso che tutto quello a cui gli altri pensano sia prevedibile e non parlo perché prima di farlo penso di esserlo anche io.

Quando poi un giorno il mio partner mi ha rimproverata per il fatto che spesso appaio tesa, immersa nei miei pensieri ma lontana dalla situazione che vivo, mi sono allarmata. Ora mi accorgo che mi succede ogni volta che sono con lui… Perdo il senso delle cose, non mi riconosco. Non so perché dire certe cose che mi vengono in mente… ho due “me” nella mia mente…

Ho consultato uno psichiatra, ma mi ha solo spaventata parlandomi di dissociazione e di rischio psicotico. È vero? Sono molto confusa…

Continuerò a leggere e rileggere i suoi libri… alleviano il mio senso di vuoto. Però ho una preghiera da farle. Se possibile, vorrei fare con lei dei colloqui conoscitivi, per capire se sono adatta a un percorso di psicoterapia e se può servirmi.

Grazie,

E.

La mia risposta

ComputerCara E.,

devo farle alcune precisazioni preliminari. Innanzitutto, grazie all’utilizzo dell’allucinogeno, lei ha compreso una realtà che sfugge ai più, vale a dire che il mondo in cui ciascuno di noi vive è un costrutto soggettivo-oggettivo, cioè un adattamento soggettivo a un sistema oggettivo di regole (non solo morali e giuridiche, ma anche logiche e percettive) dettate dal mondo sociale.

Per esempio, per il bambino e per il popolo aborigeno di una foresta, la luna non è così lontana come appare a noi (che ne abbiamo calcolato la distanza). Quando gli antichi disegnavano una scala che poggiava sulla luna, non era solo una fantasia, in parte essi credevano davvero di poterla raggiungere, se non con la mano, come tenta di fare il bambino, almeno con un sopporto sufficientemente lungo. Egualmente, per lo spiritista del XVIII secolo, i fantasmi erano entità reali e percettibili, sebbene sfuggenti, tanto quanto i viventi. Quindi la realtà non è un assoluto universale, come ingenuamente si pensa; è piuttosto una sintesi fra adattamento personale e convenzioni sociali.   

Ma se il mondo è un costrutto, è anche in un certo senso un artefatto “falso” o, per meglio dire, alternabile con altri possibili mondi.

Dopo l’esperienza piuttosto suggestiva che ha compiuto adoperando l’allucinogeno, in Lei, questa scoperta s’è associata al piacere intrinseco della mente curiosa e creativa di sondare sempre nuovi significati, quindi nuovi mondi. Ogni apparenza le si mostrava come dubitabile e poteva nascondere nuovi significati. Insomma, Lei ha scoperto che la mente (alcune menti in particolare) ha un piacere intrinsecoe un’angoscia intrinsecanel mettere in dubbio la realtà e nel sondarne altre. Un piacere autonomo, che sottopone l’Io a dei rischi, quanto meno a quello di sentirsi in perpetua ricerca di un altro mondo, o di un mondo “migliore”.

In risposta alla sua mail devo però aggiungere un’osservazione di carattere clinico. Dal punto di vista clinico, la sua testimonianza è incompleta, non è sufficiente a capire cosa sia davvero accaduto dentro di Lei a cavallo della crisi che l’ha portata a sviluppare i sintomi.

Una cosa tuttavia emerge con chiarezza: Lei ha tentato la via di una critica la suo quotidiano e di un cambiamento di visione, ma questo cambiamento non si è realizzato. Ci sono momenti in cui siamo in grado di uscire dalla visione ingenua della vita e la scopriamo artificiosa, costruita, da superare. Quando scopriamo cosa c’è di falso nella nostra vita e cosa di vero, ci muoviamo per istinto verso il vero e così possiamo ritrovare la spontaneità, una spontaneità che non è più ingenua, ma consapevole.

Purtroppo però in Lei questo passaggio è rimasto a metà. Riconosce il falso, ma ha perso la percezione del vero verso cui tendere. In lei si è attivata la paura della trasgressione del noto, dell’attacco ai significati che ha sempre dato ai suoi affetti e al mondo, e allo stesso tempo la paura dell’ignoto. Questa paura ha funzionato come una censura e Lei non ha potuto andare avanti: capire cosa rifiutasse del vecchio mondo e verso cosa tendere.

Nei nostri colloqui potremo capire cosa e chi Lei è realmente, al di fuori delle costrizioni ambientali; e in quale tipo di mondo Lei vorrebbe vivere. Saranno il suo desiderio inconscio e la sua intuizione – nonché la mia esperienza umana e clinica – a farci da guida.  

Un caro saluto.

Nicola Ghezzani

Bibliografia dell’Autore

Nicola Ghezzani, Ricordati di rinascere, ed. FrancoAngeli, Milano, 2014. È un testo molto autobiografico, concepito intorno al concetto di crisi e cambiamento psicologico.

Nicola Ghezzani, La vita è un sogno, ed. FrancoAngeli, Milano, 2018. In questo c’è ancora materiale autobiografico, ma anche molte storie cliniche e una spiegazione del sintomo. 

Nicola Ghezzani, La mente distopica, ed. FrancoAngeli, Milano 2021. Questo è il libro più clinico, nel quale le storie cliniche servono essenzialmente a illustrare il mio metodo psicoterapeutico.   

Infine, un denso capitolo sull’estasi è contenuto nel mio libro

Uscire dal panico, ed. FrancoAngeli, Milano 2000.